La dissertazione si riferisce al brano per voce e ensemble Les murs murmurent (2022),
di cui è disponibile su Mousikè la registrazione video.
Luisa Valeria Carpignano,
Les murs murmurent,
batt. 42-59.
LES MURS MURMURENT: IL GESTO OLTRE LA SCRITTURA
Un approccio alla ricerca artistica nella composizione
La partitura è consultabile e scaricabile qui:
2022 – Luisa Valeria Carpignano, Les murs murmurent
I. IL PROBLEMA DELL’ARTE ALL’INTERNO DELLA COMPOSIZIONE
Come si combina l’ideazione di un progetto compositivo, la sua attuazione, e l’immaginazione del tempo percettivo? Potrebbe essere utile una riflessione preliminare sul senso della propria attività nel panorama contemporaneo?
[…] le corps n’est plus visé comme force de travail mais comme organisme dans l’organisation de la consommation, et, pour l’atteindre, il ne s’agit pas de transformer le corps du travailleur en temps de travaille disponible sur le marché de l’emploi, mais l’âme du consommateur en temps de conscience disponible sur le marché des audiences.
Mais cette déchéance n’est pas une fatalité en ce qu’elle est aussi la carence et la responsabilité de les travailleurs de l’esprit (artistes, scientifiques de la nature et de la culture, philosophes, juristes et législateurs), et le résultat d’un échec à traduire la critique de la métaphysique, qui opposait l’esprit et la matière, et le corps et l’âme, en concepts pratiques et en pratiques sociales, tout aussi bien qu’en objectifs de lutte et en conquêtes économiques et politique – dans le cadre de ce que j’appelle désormais une économie politique et industrielle de l’esprit. […] Il est temps d’engager la pensée et ses pratiques sur cette voie, et cela suppose de décrire les époques organologiques au cours desquelles les conditions d’appariement et d’appareillages pour l’aventure du sensible évoluent aussi bien dans le sens de l’expression que de la répression, autant dans le sens du passage de la puissance à l’acte, que dans le sens de la régression de l’acte à la puissance.
Stiegler 2005, vol. II, pp. 134-136.
I.1 Come creare una macchina spirituale?
Questa citazione di Bernard Stiegler, cuore del libro La misère simbolique, sottolinea come sia ineludibile la protesta di Stiegler indirizzata all’indebolimento della capacità critica dei lavoratori dello spirito, e in particolare il richiamo a supportare una visione complessiva del proprio operato che non si esaurisca nei confini della propria tecnica specifica.
Nei processi compositivi, visti da una prospettiva contemporanea, siamo di solito molto preoccupati della programmazione di una macchina funzionante. Il lavoro progettuale corrisponde alla scelta di funzioni e di variabili che diano un qualche risultato; a volte la macchina è molto semplice ma ci concentriamo sulla scelta delle variabili, e con questa intenzione si possono collezionare tecniche estese che si spingono in maniera naturale a suoni e rumori che prima di questo secolo esulavano da una articolazione musicale. A volte la macchina è più complessa, e ci si può concentrare sulle funzioni, e su processi strutturali di trasformazione. A volte il brano musicale è la restituzione individuata di una serie di esperimenti sullo stesso processo con diverse variabili, o sui diversi tipi di trasformazione che lo stesso materiale può subire.
La fase progettuale, soprattutto in ambito accademico, talvolta sembra voler esaurire nella sua propria tecnica la fisiologica imprevedibilità vitale che dovrebbe essere connaturata a una opera d’arte. Tuttavia l’opera d’arte non si riduce a una macchina funzionante, ma si articola come un ecosistema attraversato naturalmente da détournement inattesi (si veda a proposito Guy Debord e l’estetica situazionista) o da aberrazioni (si veda Différence et répétition di Gilles Deleuze e le recenti ipotesi di lavoro in ambito della ricerca artistica in The Dark Precursor: Deleuze and the artistic research).
Semplicemente si dovrebbe ammettere che l’opera d’arte come eco-sistema è costitutivamente, fisicamente e logicamente aperto ad errori provvidenziali, per quanto ci si sforzi di osservarlo in maniera rigorosa.
La stessa idea musicale non è solo un foglio di carta con un insieme di istruzioni, ma è un ecosistema a cui contribuiscono la perfomance degli strumentisti, il processo performativo di scrittura della compositrice, la sala, gli strumenti, e l’ascolto individuale del pubblico. E in qualche modo, le analogie e le trasformazioni che sono alla base della pratica e dell’esperienza in qualsiasi campo artistico lavorano in differenti piani su schemi di somiglianza, differenza e ripetizione che tendono a confutare una identità nel momento stesso in cui la affermano.
Eppure, nella prassi compositiva rimane e deve rimanere l’esigenza sistematica, lo sforzo di creare una funzione fondamentale di legame percettivo e temporale, non fosse altro che una mappa di differenze all’interno di una località.

Come Timothy Morton sostiene in Iperoggetti, se il tempo nella nostra percezione non solo ci sfugge, ma anche avvicina a un primo piano sfalsato l’evento inaspettato – per quanto piccolo – alla nostra routine conoscibile, mentre in un altro registro rende impercettibile l’erosione geologica sotto i nostri piedi, a causa dei cicli sovrumani che la caratterizzano, allora la compositrice ideale si prende in carico di manipolare, tradurre, imitare, sovvertire l’ordine dei registri temporali; secondo la cultura europea, la responsabilità compositiva implica lo sforzo prometeico di dimostrare possibile il controllo e la conoscenza su una materia che non sarebbe accessibile alla nostra piena comprensione. Gli oggetti sonori (soggetti all’interno di un ecosistema musicale) sono ausiliari, apparenti, e discutibili in quanto indeterminabili all’interno del flusso dell’esperienza, poiché dipende dal punto di vista soggettivo o oggettivo in cui li si valuta, e molti di conseguenza sono gli approcci di interazione alla materia sonora e musicale;
ma rimane in ogni caso nell’attività della compositrice questa intenzione faustiana (o come dice Wilfrid Mellers, questa identificazione nel Prospero shakespeariano) di agire sulla natura rendendola cultura, assumendo la responsabilità del proprio gesto con gli imprevisti, gli errori e le contraddizioni della materia viva in cui si opera, e che rendono l’attività musicale un pharmakon di platonica memoria.
In questo senso, si può dire che il gesto artistico, il comporre, sia operare in senso lato anche in maniera filosofica. Se ad esempio si assume un punto di vista che parte dal modello kantiano, la compositrice si esprime necessariamente all’interno della forma a priori del tempo, condizione di ogni possibile esperienza temporale, di cui la composizione in quanto articolazione di oggetti sonori ne è una possibile incarnazione. La ritenzione, ossia rievocazione di una esperienza ma tramite la rielaborazione inconscia dell’immaginazione, viene successivamente fotografata attraverso la scrittura, attraverso la macchina della tecnica compositiva specifica. Ciò permette la restituzione di oggetti sonori che diventano funzioni e variabili, oggetti e segni ulteriori all’interno dell’ecosistema musicale collettivo. Il modello temporale che ne consegue è una struttura ad anello, o forse meglio a spirale, in quanto contemporaneamente chiusa e aperta: come in un ecosistema appunto, l’immaginazione e le categorie soggettive non sono infatti una scatola chiusa, ma sono permeabili all’ambiente sonoro conscio e inconscio. La creazione contemporanea può corrispondere a una re-immissione nell’habitat acustico di nuovi esemplari delle diverse specie protette, come pure di esseri viventi prima inauditi, frutto della manipolazione genetica nelle creazioni più informate dalla sperimentazione.
Alla luce di queste riflessioni, in questo progetto le prime domande che mi sono posta riguardavano la traduzione di queste considerazioni nella pratica del progetto compositivo. È possibile trovare un modo di agire nella scrittura usando la spirale come modello, ossia come un sistema a priori determinato, ma aperto in maniera programmatica alla sua evoluzione? È possibile rendere la mia composizione una macchina spirituale?
II. LA SPIRALE COME MODELLO
Come appena visto, la creazione di questo pezzo è stata l’occasione per concentrarmi nella mia ricerca artistica nella più ampia prospettiva di una interrogazione del processo di scrittura, a cui è conseguito un indirizzo che potesse comprendere il tempo e un suo modello di struttura. I limiti della commissione erano la durata richiesta, 7 minuti, e l’ensemble di 19 strumenti, ossia una piccola orchestra divisa fra fiati, archi, e percussioni, pianoforte, fisarmonica, il clavicembalo che richiama in maniera irresistibile alla produzione ligetiana, a cui si aggiunge un basso-baritono solista. Date queste variabili, la prima ricerca preliminare doveva essere condotta allo scopo di combinare una struttura della durata di 7 minuti con una disposizione flessibile nel mio processo di scrittura, che desse modo di esprimere le potenzialità dell’ensemble e del solista.
La prima cosa che ho fatto è stata predisporre delle ipotesi di schema temporale informate dalla sezione aurea, scegliendo la sua forma di spirale proporzionale. La speranza, nella scelta di questa immagine, era che mi permettesse di ragionare al di fuori di una concezione lineare del progresso temporale. Allo stesso tempo il concetto di frazione matematica alla base della costante dava da un lato modo di ragionare il rapporto temporale sia fra sezioni più piccole o gruppi di sezioni sia fra due macro sezioni più grandi.
In corso d’opera non ho mantenuto una proporzione così precisa fra le sezioni piccole perché non l’ho ritenuto fondamentale, ma è rimasta l’idea normativa di una curvatura, ossia di fasi di transizione, fra porzioni più piccole e via via più grandi che dunque mantengono sia una certa nettezza percettiva di differenza fra situazioni diverse sia una omogeneità di fondo che rende percepibile il raggruppamento. Inoltre ho mantenuto una disposizione strutturale dove a una sezione più ampia (metronomo a 48 alla semiminima, battute 1-67), anche dal punto di vista percettivo corrispondesse a una situazione più calma rispetto alla seconda parte, dove volevo ottenere una generale sensazione di movimento. In questa seconda parte la rotazione più veloce di materiali e tecniche, oltre a metronomi in accelerazione (52 e 76 alla semiminima), rendono percepibile l’avvicendarsi di sezioni più piccole collegate, con l’idea di ottenere una macro-pulsazione ritmica nel rapporto fra sezioni.
L’organico a disposizione doveva muoversi in queste caselle temporali attraverso transizioni continue del materiale ma anche attraverso fratture apparenti, che nella mia poetica generale ritengo fonte di interesse, in modo da rendere stabili in maniera strutturata i punti di riferimento dell’ascolto e al contempo creare occasioni di discontinuità controllata.
Rimaneva un problema fondamentale: dove trovare la poetica del tempo e della percezione di questo brano che comprendesse queste intenzioni?
III. L’INTERPRETAZIONE DEL TEMPO NEI SOGNI TRA SIGMUND FREUD E PAVEL FLORENSKIJ
Freud, nel capitolo sugli stimoli sensoriali del sogno come fonti del sogno, riporta da Volkelt:
Un compositore sognò una volta di fare lezione e di stare spiegando qualcosa ai suoi allievi. Quando ebbe finito chiese a uno dei ragazzi: “Hai capito?”. Il ragazzo gridò come un matto: “Oh ja”. Seccato gli ordina di non gridare ma già tutta la classe stava urlando “Orja”, poi “Eurjo” e finalmente “Feuerjo!” [Al fuoco!]. A questo punto si sveglia e sente che stavano effettivamente gridando: “Feuerjo!” nella strada (Freud 1976, vol. II, xxx).
Questo sogno è l’occasione per Freud di soffermarsi a riguardo non solo della possibilità per il sognatore di concentrare una quantità di tempo piuttosto lungo, per la coscienza del sognatore, nel breve periodo di tempo tra la percezione dello stimolo e il risveglio; ma soprattutto di interrogarsi sul perché lo stimolo oggettivo esterno venga riproposto alla coscienza del sognatore in una serie di associazioni e trasformazioni di forma apparentemente casuali. Sarà Florenskij, nel suo saggio sulle icone, a sottolineare un altro punto cruciale:
Poco ho dormito, molto ho veduto” è la succinta formulazione di tale densità delle immagini oniriche. Tutti sanno che nel sonno, in un tempo assai breve se misurato dall’esterno, è possibile vivere ore, mesi, persino anni e, in condizioni particolari, addirittura secoli o millenni. In tal senso nessuno può dubitare che chi dorme, isolandosi dal mondo visibile esterno e passando con la coscienza in un un sistema diverso, faccia sua anche una nuova misura del tempo, cosicché, rispetto a quello del sistema che ha lasciato, il suo tempo scorre a incredibile velocità. E se tutti, anche senza conoscere il principio di relatività, concordano che in sistemi diversi, almeno per quanto concerne il caso in esame, scorre un tempo proprio, con velocità e misura proprie, non tutti, anzi direi pochissimi hanno contemplato la possibilità che il tempo scorra a una velocità infinita e che, rovesciandosi su sé stesso proprio per effetto di questo transito a una velocità infinita, arrivi addirittura a invertire il suo corso. E così il tempo può davvero essere istantaneo e rovesciato, diretto dal futuro al passato, dagli effetti alle cause, teleologico, ed è esattamente quanto accade allorché la nostra vita passa dal visibile all’invisibile, dal reale all’immaginario (Florenskij 2021, p. 13, le sottolineature sono nostre).
In effetti, le lunghe narrazioni dei nostri sogni ci portano, nella loro progressione di cause ed effetti, ad ottenere la situazione in cui si svela ciò che, di fatto, è stata invece l’origine di tutta la narrazione. Questo è ancora più sorprendente in sogni complicati e piuttosto lunghi, e con eventi finali che corrispondono a una percezione esterna puntuale (un quadro che cade nella stanza dove si dorme, ad esempio) e nei quali è davvero difficile persuadersi completamente che tutta la successione, per noi percepita prima, sia in realtà una conseguenza di quello che nel sogno arriva alla fine. Facciamo dunque l’esperienza di eventi che in maniera causale, articolata e ineluttabile portano a una scena risolutoria del sogno; questa percezione ci appare errata e contraddittoria, quando svegliandoci ci rendiamo conto che uno stimolo sensoriale esterno è in realtà stato l’origine precedente allo svolgersi del sogno. Quello che nella realtà è avvenuto in un momento X ha causato lo svolgersi di una complessa trama, ma in questa ricostruzione ci troviamo incastrati in un loop paradossale trovando che il momento X, anche se trasfigurato, appare solo dopo una lunga serie di eventi logici nel vissuto onirico.
Ma è possibile ricreare delle condizioni per cui nella composizione l’origine arrivasse alla fine, e in maniera strutturale?
IV. UN LAVORO CHE PROCEDE DALLA FINE: GIOCHI A SPIRALE
Per visualizzare meglio una possibile maniera di operare all’interno della spirale che tenesse in conto la necessità di razionalizzare lo spazio-tempo della partitura in porzioni più piccole, che si possono definire caselle, ho pensato di svolgere una ricognizione dei giochi di tavoliere, per cercare suggerimenti fra le loro regole e istruzioni di avanzamento. Vi è una ricca tradizione di giochi di tavoliere a spirale, soprattutto fra i più antichi. Il più antico è l’egiziano Mehen (serpente arrotolato), risalente al 2800 a.C.; il Sig, derivato dal Mehen, ma con movimento inverso delle pedine, e il cui spazio di gioco si sviluppa tridimensionalmente utilizzando una montagnola di sabbia; e infine il gioco arabo della Iena, dove il centro della spirale corrisponde a un pozzo a cui bisogna arrivare e tornare indietro senza essere mangiati dalla Iena, una pedina senza proprietario ma mossa dal caso. Unitamente a queste libere esplorazioni, ho provato a ricostruire delle tabelle circolari di trasposizione armonica, il cui percorso seguisse appunto una forma circolare e uno spostamento interno a spirale.
Fatti questi esperimenti, sono giunta alla conclusione che per individuare il materiale di origine della composizione, e renderlo coerente con un processo che intendevo desumere retroattivamente, avendo già il canovaccio della sezione aurea la strada più elementare sarebbe stata non nell’individuare questo materiale a priori e preordinarne una evoluzione, bensì partire semplicemente dall’ultima sezione con un gesto, inteso come non teleologico ma archeologico, da cui avrei desunto in maniera retroattiva le possibili situazioni precedenti, le quali avrei costruito mano a mano. Quindi la mia origine in questa composizione è stata sapere dove sarei finita, ma non da dove sarei partita.
Come ulteriore considerazione di partenza, ho ipotizzato che nelle forme dell’orchestrazione avrei dovuto individuare successivamente una sorta di gesto curvo, che avrebbe dovuto cercare di tradurre una morfologia ondulatoria, con qualità di oscillazione e pulsazione al contempo. In questa direzione, ho anche deciso che il metro unico del brano sarebbe stato un ¾, che avrei plasmato secondo le esigenze, certamente più adatto di un tempo binario a una forma ad onda o curva.
Rimaneva l’ultima domanda risolutiva: in che modo, e che voce avrebbe incontrato la struttura?
Nel corso delle esplorazioni intorno ai giochi da tavolo, ho nel frattempo scoperto l’opera di un artista italiano, Fernando Nannetti (1927-1994), che utilizzava una modalità di scrittura in uso fra alcune popolazioni primitive e in seguito nell’etrusco, ossia la scrittura bustrofedica. Questo tipo di scrittura non ha una direzione fissa ma procede in un senso fino al margine del supporto, per poi prosegue a ritroso nel senso opposto senza andare a capo. Nell’assecondare il nuovo senso, le parole non solo diventano palindrome, ma anche le lettere vengono invertite.



Don Chisciotte è la prima delle opere moderne poiché in essa si vede la crudele ragione delle identità e delle differenze deridere all’infinito segni e similitudini, poiché il linguaggio, in essa, spezza la sua vecchia parentela con le cose […] poiché la somiglianza entra così in un’età che è quella dell’insensatezza e dell’immaginazione. Una volta attuata la separazione fra similitudini e segni, due esperienze possono costituirsi e due personaggi emergere e fronteggiarsi. Il pazzo, inteso non come malato, ma come “devianza” costituita e alimentata, come funzione culturale indispensabile, è divenuto, nell’esperienza occidentale, l’uomo delle somiglianze selvagge. Questo personaggio, nella forma in cui compare nei romanzi o nel teatro dell’età barocca, e in quella entro la quale si è istituzionalizzato a poco a poco fino alla psichiatria del XIX secolo, è colui che si è alienato nell’analogia. […] All’altro estremo dello spazio culturale, ma vicinissimo per la sua simmetria, il poeta è colui che, al di sotto delle differenze nominate e quotidianamente previste, ritrova le parentele sepolte delle cose, le loro similitudini disperse.
Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, trad. it. Emilio Panaitescu (Milano: Rizzoli, 1967), III. Rappresentare, pp. 63-64.





V. PRIMA LA MUSICA POI LE PAROLE: IL GESTO DI FERNANDO NANNETTI
Alla fine degli anni ‘50, il manicomio di Volterra è il più grande d’Italia, una sorta di villaggio con funzione sia di internamento dei malati che di detenzione giudiziaria, completo di tutti i servizi di autonomia, che arriverà a comprendere oltre 30 edifici e a svilupparsi nel complesso per oltre 400.000 metri quadri. Fernando Nannetti è un giovane internato sotto la diagnosi di “vizio di mente”. “Moro, spinaceo, castagno, col naso a Y”, proprio come gli esseri di altri pianeti con cui scrive di essere in contatto, Nannetti, nel corso di nove anni, nell’ora d’aria al giorno prevista, incide sui muri a parole e immagini con la fibbia della sua cintura un diario fantascientifico di più di 180 metri per due. Le sue parole richiamano la poesia di Marinetti, che forse aveva conosciuto a Roma lavorando come elettricista a una sua mostra, ma la scrittura è per lo più scarsamente leggibile perché i segni grafici sono spigolosi, assomiglianti a quelli etruschi. Ma soprattutto, come nella scrittura bustrofedica, le parole non hanno una direzione fissa ma arrivate ai margini dello spazio che ha a disposizione tornano indietro e le stesse lettere vengono ruotate.
Dopo la chiusura dei manicomi in Italia i graffiti si sono rapidamente deteriorati, e ne rimangono circa 50 metri. Di questi, 8 sono stati staccati e ricollocati al Museo Lombroso, dedicato alla storia della psichiatria in Italia e alle storie dell’ex-manicomio di Volterra. Le altre porzioni di graffiti, rimaste nel manicomio abbandonato, anno dopo anno subiscono il più rapido deterioramento.
È interessante come Lucienne Peiry, curatrice della più grande retrospettiva dedicata a Nannetti, parla del rapporto dell’artista con la proprio superficie di incisione: « Nannetti doit d’autant faire corps avec son mur de pierre, au sens littéral, que les conditions techniques pour graver sont difficiles, requérant une force phisique et une dextérité permanentes » (Peiry 2021, p. 26), passaggio che in altro articolo della stessa curatrice viene ritradotto in italiano con: « Nannetti orchestra [corsivo nostro] il suo muro di pietra, se ne appropria, deve fare letteralmente corpo unico con esso, tanto più che le condizioni tecniche di lavoro sono difficili e richiedono all’autore uno sforzo fisico e una destrezza costanti ».
È questa orchestrazione, corpo unico fra il soggetto, la mano e la superficie, che hanno attirato la mia attenzione.
Nel pensiero di Leroi-Gourhan, paleo-antropologo e archeologo, gli utensili e la tecnologia sono un terzo tipo di memoria, in addizione a quella genetica e a quella individuale del sistema nervoso. Gli utensili primordiali atti alla scrittura in particolare avrebbero aiutato, tramite la visione, a sviluppare il pensiero simbolico necessario a sviluppare il linguaggio. In questa articolazione si tendono a creare le coppie privilegiate viso/lettura e mano/grafia; questi rapporti sono esclusivamente umani, ossia a differenza di altre specie queste due coppie hanno permesso lo sviluppo simbolico del linguaggio. Ne consegue che la motricità, attraverso il linguaggio e la tecnica, condiziona l’espressione (Leroi-Gourhan 1964, vol. I, p. 263). In questo contesto, le prime espressioni grafiche di cui siamo a conoscenza sono di tipo ritmico, in altre parole le prime rappresentazioni sono astratte e non realistiche. Avendo dunque il grafismo una origine fortemente legata alla motricità e una origine di ordine astratto, non stupirà forse che le prime forme di scrittura ideografica non si sviluppavano linearmente, ma secondo una organizzazione a spirale intorno alla mano (Ill. II), da un lato assecondandone il gesto più agevole, dall’altro favorendo l’espressione di una visione cosmica al cui centro si percepiva lo stesso uomo (Leroi-Gourhan 1964, vol. I, p. 275).
Sulla scorta di questo pensiero, l’orchestrazione, l’approccio al farsi della composizione, sembra possibile dunque anche a partire da forme simboliche semplici, come la spirale, con procedimenti motrici apparentemente più ingenui, come partire dalla fine e tornare indietro, all’inizio, senza rispetto per la linea temporale; come questo approccio è possibile per Nannetti, molto vicino nella sua opera artistica alla tecnologia, al gesto, e alla visione del mondo arcaici di cui misteriosamente si riappropriava.
Ed è così che il titolo del brano Les murs murmurent significa letteralmente “I muri mormorano”, mutuato dal catalogo di una mostra di graffiti gallo-romani citato dalla Peiry. Il titolo della mostra alludeva all’espressività e alla persistenza delle tracce affidate ai muri dai nostri antenati europei, in un gesto spontaneo e segreto. Inoltre le diverse sillabe di questo titolo, pur appartenendo a parole diverse, in francese sono da pronunciarsi tre volte uguali, creando un eloquente cortocircuito morfologico fra significato poetico, segno grafico e segno acustico. Questo è un caso semiotico particolarmente notevole per chi si occupa in concreto, come una compositrice, del rapporto fra segno grafico e risultato sonoro, e perciò anche di interferenze, analogie e camouflage fra le diverse dimensioni di significato.
Considerato tutto questo, ho deciso di procedere incidendo il mio supporto, la partitura, prima orchestrando l’ensemble, i segni sul muro, e solo dopo aggiungendo la voce, facendola affiorare a tratti dallo spazio della scrittura. Sempre in relazione alla voce, anticipando un aspetto dell’analisi susseguente, ritengo opportuno portare a ulteriore esempio di questa traduzione in atto dalla fase di ricerca a quella dell’artigianato compositivo il caso del raddoppio omoritmico, e nella maggior parte dei casi omofonico (con qualche variazione) del vibrafono sulla voce, che ha più funzioni: l’idea di associare questi due strumenti antitetici nella tradizione lirica, nasce dal bisogno di dare un sostegno ritmico al solista, che sarà impegnato in molti passaggi ritmico-teatrali fra la ruminazione o il balbettio su consonanti; ma allo stesso tempo il vibrafono ha una funzione timbrica e di colore, formando il suono risultante in una enunciazione più brillante sia nell’articolazione sia nel sostegno della durata, mettendo in risalto in maniera ambivalente gli interventi vocali, anche dove pensati più nascosti all’interno della tessitura strumentale, allo scopo espressivo di dimostrare il paradosso dell’artista che esterna la propria interiorità salvaguardandone allo stesso tempo il segreto.
A conclusione di questa prima ricognizione sull’anima di questa composizione, porto un ulteriore elemento di riflessione che riguarda il rapporto dell’artista con la propria opera. Quando Nannetti viene obbligato dai medici a scrivere delle cartoline, lo fa scrivendo in maniera chiara e leggibile. Come giustamente scrive la Peiry, « Dans ces missives […] il obéit aux conventions liées à l’écriture (syntaxe, grammaire et ortographe) et respect les règles épistolaires, prouvant ainsi sa capacité à maîtriser les usages homologués de l’écriture et montrant que ses élucubrations murales sont volontaires et choisies » (Peiry 2021, pp. 43-44). Pur negli stati deliranti da cui era affetto, l’atto creativo è volontario. E come Borges si interroga sulle condizioni personali e il contesto storico in cui un fittizio Pierre Menard sarebbe riuscito a scrivere, parola per parola, ma con lo spirito di un uomo del novecento, alcuni capitoli del Don Chisciotte, così anche noi possiamo interrogarci su come un uomo affetto da malattia mentale, di neglette origini, alienato dalla società e in miserevoli condizioni quotidiane, sia riuscito a sublimare la sua esistenza, utilizzando originali immagini poetiche in cui accanto ai neologismi di sapore futurista possono trovare posto Goethe e Il flauto magico, e a fare questo incidendo faticosamente in una scrittura sorprendentemente simile a quella etrusca, che probabilmente non aveva mai visto. Jung direbbe che tutti siamo attraversati da conoscenze della cui origine non siamo coscienti, Ginzburg aggiungerebbe che è fuorviante pensare alla cultura e alle espressioni genuine del pensiero come a manifestazioni che concernono solo le classi privilegiate. Foucault forse ne accoglierebbe la storia particolare, come naturalmente quella di un personaggio nato dalla modernità.
VI. STRUTTURA DELLA COMPOSIZIONE
PRIMA SEZIONE
X – Batt. 1-21
Per l’inizio del brano ho optato per una sorta di “pulitura” preliminare dell’orecchio dell’ascoltatore, allo stesso tempo anticipando alcuni elementi ritmici e armonici.
Il materiale armonico, basato sui primi armonici della serie di Do fino al Si, usando il perno del Mi si sposta a batt. 11 verso l’intervallo Mi-La, utilizzato come 4a e come 5°. Questi due intervalli sono caratteristici della sintesi degli intervalli fra la fondamentale, la prima apparizione della 5° e il successivo suono fondamentale nella serie degli armonici. Il passaggio al secondo materiale armonico del brano è sottolineato dall’immissione di un fa al corno a battuta 11, che anticipa l’idea che il materiale armonico della prima sezione, che sarà presentato in purezza, verrà poi progressivamente intorbidito.
Il pianoforte, impegnato in una ripetizione ritmica che insiste per diverse battute prima al Mi, poi al La, poi di nuovo al Mi, mentre mantiene un carattere di oggetto sonoro simile all’accordatura dello strumento, sottolinea anche il passaggio armonico, in particolare a battuta 15, corroborato dai Si che appaiono a flauto e oboe a battuta 17 a lasciar intendere che si insiste maggiormente sulla relazione del Si col Mi, largamente usato in tutti gli strumenti; ma allo stesso tempo si mantiene attivo il riferimento al La trattenuto dalle due viole e dal violino 3.
Dal punto di vista ritmico ho optato per una prima pulsazione verticale in accelerazione e in diminuendo (batt. 1-3) a cui fa subito seguito l’inversione di un macro-accento costituito dalla verticalità di tutti gli strumenti su nota fissa della stessa durata (tre battute) che dal p va allo sforzatissimo. A questa introduzione preliminare viene cucita in maniera impercettibile la figura ritmica di clavicembalo e pianoforte, che dalla durata più lunga di battute 4-6 si contrae, similmente all’inizio, ma accelerando a due velocità (Ex. I) diverse fra i due strumenti, che lasciati soli si fissano su una figurazione che è una anticipazione del profilo ritmico del soggetto del fugato che verrà esposto nella sezione C.

A battute 10-26 si assiste percettivamente a una transizione dei materiali, con un esaurimento dell’oggetto sonoro che corrisponde all’accordatura piano, e viene inserita la tessitura archi che sarà poi caratteristica della sezione A. I fiati continuano con altri macro-accenti che sottolineano il processo generale di pulsazione in esaurimento.
A – Batt. 22-68
La sezione A si caratterizza per un carattere abbastanza statico e per essere ancorata sulla stessa tessitura degli archi fino a battuta 68. È la sezione più ampia prevista dalla struttura, e l’ancoraggio sullo stesso materiale per la sua intera durata si contrappone all’utilizzo di più sotto sezioni e un maggiore sviluppo e transizione dei materiali nella seconda sezione 68-110.
L’inizio della sezione A è nettamente percebile, non tanto per l’uso ai fiati per la prima volta dello stesso materiale ritmico di clavicembalo e pianoforte, che pur dà un nuovo impulso dinamico perché esposto in maniera contrappuntistica su quattro parti, ma perché vi è uno spostamento netto del materiale armonico che da 22 a 36 si baserà fondamentalmente sullo spettro del Do#.
Il percorso armonico sinteticamente andrà dal Do# fondamentale al Si.
L’inizio della sezione è anche caratterizzato dall’entrata della voce a b. 22, che si presenterà doppiata dal vibrafono da batt. 26 (si veda a tal proposito il paragrafo Prima la musica poi le parole).
La texture degli archi si costruisce dal registro basso a quello acuto con un procedimento ondulatorio, costruendo gradualmente lo spettro per poi svuotarlo più velocemente e lasciare persistenti i registri bassi, con qualche intervento del registro medio fra un’onda e l’altra.
L’idea è di creare una macro pulsazione, inizialmente non percepibile, che da battuta 50 a 68 si sincronizzi con gli interventi dei fiati, e comprima il proprio ciclo mentre allo stesso tempo si sovrappone agli interventi della voce fuori fase.
Per sfuggire al pericolo di una tessitura complessiva troppo statica, sono stati aggiunti con la tecnica strumentale dei moti ondulatori interni alla tessitura (Ex. II): l’onda complessiva viene rifratta in onde più piccole, per lo più ripartite per gruppi violini-viole-violoncelli, tramite l’uso di forcelle che dal Piano, legato alla porzione ordinaria di appoggio dell’arco, si spingono al Mezzoforte/Forte a cui invece è legato il cambio timbrico, un po’ più brillante, di poco al ponticello. Allo scopo di rendere più naturale, realistico e meno squadrato possibile il passaggio timbrico e dinamico, la durata e l’articolazione delle forcelle, con il rispettivo apice e poco al ponticello, viene misurata con la varietà data dall’uso distribuito di ritmi basati sull’ottavo, sull’ottavo di terzina e sul sedicesimo come apice e scansione interna dei crescendi e decrescendi.

La scrittura ad onde ha reso possibile costruire la parte strumentale in modo che lasciasse spazio alla successiva scrittura della voce, dando respiro agli interventi del Basso-Baritono e allo stesso tempo tracciando una struttura precisa su cui innestarsi.
Il primo intervento della voce è una ruminazione ritmica (stesso ritmo del pianoforte dell’introduzione) sulla consonante “N” sostenuta vocalmente da “æ”, che ripete ossessivamente l’altezza del Do# e poi il Sol# come quinta. La ruminazione sfocia dalla fine di battuta 29 nella prima presentazione autobiografica della voce, identificata nell’artista, tramite alcune indicazioni concise sul proprio aspetto fisico: « Nannetti Fernando : Moro : Spinaceo : Castagno ». Una volta espresso il proprio nome, la linea musicale inizia ad avvicinare il Do# e il Sol# all’interno della sillabazione della stessa parola, e a promettere, dopo questa esposizione spigolosa e un po’ meccanica, una maggiore articolazione melodica.
A questa prima presentazione, corrisponde un’onda d’urto assorbita da una linea curva delle entrate degli altri strumenti che descrive uno spazio convesso. I riverberi ai fiati hanno la stessa ritmica prima presentata ma su strumenti diversi e con l’uso delle forcelle mutuato dalla tessitura degli archi; gli archi, tolti i violoncelli, entrano descrivendo a loro volta una forma convessa. Il violoncello 2 cambia da solo la fondamentale passando al Si per tre battute.
Assorbito l’urto della presentazione, a batt. 38-41 pianoforte e clavicembalo (Ex. III) si intromettono nel paesaggio, quasi a risposta posticipata della voce, anticipando due versioni alternative del soggetto che sarà protagonista nella sezione contrappuntistica di C (Ill. IV).
A batt. 47 corrisponde un nuovo impulso del discorso: all’entrata dei violoncelli cui segue il sommarsi degli archi, coincide l’entrata della voce. La voce, che gioca fra Do# e Sol# come un corno da caccia, in crescendo su ritmi basilari all’interno della terzina, si fa annunciazione di sé medesima. Il testo fra 42 e 43 ripete “Mur”, che è la traslitterazione della pronuncia del titolo del brano Les murs murmurent – le diverse sillabe, pur appartenendo a parole diverse, sono da pronunciarsi tre volte uguali – e a 44 canta nel suo primo frammento melodico “astronannaval”, parola inventata da Nannetti che è una crasi tra astronave e nanna. Il frammento melodico ascendente, che si voleva di carattere lunare, è una unione di un tono intero e di due semitoni, e anticipa il frammento finale al flauto della coda di 107-110, dove il codice genetico del rapporto fra scale è la sequenza di toni interi sovrapposta a sequenze cromatiche. All’esclamazione della voce viene cucito il ripiegamento della stessa melodia sul vibrafono: i due strumenti in questo caso non si doppiano ma si compenetrano.
A batt. 46-49 il basso dei violoncelli si sposta di semitono da Do# a Re, ma in questo caso si sceglie di spostare il basso dei violoncelli da funzione di fondamentale a quinta di una triade di Sol maggiore, creando uno spostamento armonico di tritono Do#-Sol. I fiati da questa sezione perdono la caratteristica ritmica precedente, ancora in parte mantenuta nell’ultima apparizione, e si uniformano alla tessitura degli archi. Il residuo di questo profilo ritmico, già presente a batt. 37, viene evocato ancora a batt. 55 dalla coda in diminuendo al ppp degli archi, e a 72 della sezione B. Questo tassello di tre battute da 46 a 49 è la prima contrazione del gesto ondulatorio.
A batt. 50-53 il materiale armonico prosegue con l’ibridazione. Mentre gli archi usano la quinta Si-Fa#, i fiati mantengono la triade di Sol maggiore. Il Fa# a 50 inizia ad esaurirsi a 51 dove il Sol viene affermato, a sua volta esaurendosi e lasciando riemergere il Fa# mantenuto a Viola1. Percettivamente si crea un passaggio modale lievemente sovrapposto di di Si min-Sol Magg-Si min. La tromba con sordina sul Re sottolinea l’ambiguità-perno fra i due accordi.
La modulazione dei campi armonici esposti fino a qui è sinteticamente Do#M-SolM-Sim, e lo stesso movimento tornerà contratto da batt. 54 a 68.
A batt. 54 l’intervento della voce fa da transizione, sovrapponendosi all’esaurimento dell’episodio precedente e al nuovo impulso degli archi, di nuovo sul Do#, che sarà a 56, quindi entrata degli archi e della voce non coincidono come sentito precedente ma vanno fuori fase. La voce, che canterà a 57-58 “private, Sono cose”, lasciando sospesa la frase, fra 54 e 56 si ostina sulla “P” esplosiva di private, anticipata da un balbettio sconnesso, e sulla “S” di “sono” e “cose”, trasformata in un sssss ammonitivo, un contraddittorio invito al silenzio. Si chiede ambiguamente all’ascoltatore di immaginare, e di non chiedere quello che non può essere detto più chiaramente. L’articolazione melodica a 57-58 corrisponde alla ripresa della sezione discendente dell’ultimo frammento melodico al vibrafono, con una fioritura cromatica sul Sol# che dà voce a una sospensione agitata.
Alla dichiarazione della voce risponde fra battuta 59 e 63 la prima inversione fra archi e fiati: mentre i violoncelli tacciono, la tessitura, dove viene utilizzata la quinta Sol e Re, viene esposta in maniera densa per la prima volta ai fiati, sovrapponendosi allo stesso tempo al Sol# mantenuto da due violini e due viole, continuando a creare interferenza nello spettro del colore armonico che all’inizio della sezione si presentava in purezza. I violini, mentre l’onda dei fiati si esaurisce, vengono convertiti al sostegno del Re.
A battuta 62 la voce nuovamente si sovrappone all’esaurimento dell’onda precedente, in una transizione in cui torna su un balbettio ritmico in staccato sulla vocale “O”, accompagnata dal vibrafono prima all’ottava superiore poi alla stessa altezza, ed infine a due ottave di distanza. Anche qui la direzione drammatica della voce, da una articolazione interrotta e difficoltosa, sfocia su “private, L’ho detto!” di batt. 65-67, in collegamento e riaffermazione di quanto prima già ammonito. Allo stesso tempo nell’affermazione “L’ho detto!” si crea l’ambiguità di senso, fra l’averlo appunto già detto, e la conquista di essere riuscito a pronunciare “private” dopo tanti balbettii.
L’impulso degli archi si àncora fra Si e Fa# da batt. 64 a 68, con l’aggiunta laconica del flauto solo sul Si e del clarinetto sul Sol che crea nuovamente il passaggio Si min-Sol Magg. Anche la voce e il vibrafono interferiscono, con una appoggiatura sul Fa naturale per la durata di battuta 64.
SECONDA SEZIONE
La seconda sezione utilizza in maniera più spiccata delle sottosezioni caratterizzate da tecniche compositive e materiali chiaramente diversi. Il procedere tra questi materiali e tecniche è organizzato sia da logiche di transizione, più o meno veloci (transizione senza soluzione di continuità da B a C, transizione veloce da C a B’) sia da logiche di frattura, come l’apposizione netta dopo B’ di un materiale diverso (y), che però incarna la trasformazione del materiale B, la cui configurazione vedremo più avanti. A questa cesura fra B’ e y, succede una cesura ancora più netta fra y (fine seconda sezione) e l’epilogo z.
B – Batt. 68-83
La seconda sezione è inizialmente evidenziata su partitura dal cambio di metronomo, da 48 a 52 al quarto. Dal punto di vista percettivo, la sezione si apre con delle battute di transizione che apparentemente ripropongono il materiale precedente. Gli archi danno un nuovo impulso su Si e Fa#, a cui si sovrappone un Fa naturale di Flauto e oboe. A battuta 69 i tre violini si spostano sul cluster Sol-La-Si che anticipa brevemente la nuova idea che si svilupperà in questa sezione. Mentre negli altri strumenti il materiale precedente si esaurisce per l’ultima volta, i tre violini spostano il proprio cluster su Si-Do-Do#/La#-Si-Do e iniziano un gesto affatto nuovo, anche se preannunciato in nuce dalle sovrapposizione e dalle appoggiature dissonanti che avevano iniziato a interferire in maniera stabile nelle ultime battute.

Qui la tecnica caratteristica, poi ripresa anche in B’, è quella delle fasce di cluster mobili, scelta perché per certi versi opposta e complementare alla scrittura della prima sezione che era invece orientata verso la risonanza di quinte vuote e i colori armonici essenziali di ispirazione spettrale. All’interno della singola parte vi è una fibrillazione cromatica che si sposta gradualmente verso il basso, mentre il rapporto fra le linee è contrappuntistico sia nelle altezze che nel ritmo, in modo da non sovrapporre e raddoppiare le stesse note pur rimanendo nello stesso range ristretto. Nel suo sviluppo vengono utilizzati procedimenti a canone e di inversione delle altezze (Ex. IV). Con cadenza circa ogni battuta, due strumenti sempre differenti creano un accento di durata, tramite una legatura di valore a cavallo delle figurazioni che riempiono il quarto, sottolineando prima delle seconde maggiori anche con l’aiuto della viola che si aggiungerà a 74. Il colore timbrico viene costruito anche dell’utilizzo del flautato poco al ponticello. La fascia di cluster di battuta 70 parte dall’ambito di La#-Do e termina circa una quinta sotto su Re-Fa# di batt. 76-77, andando incontro a un rallentamento delle figurazioni da battuta 74. A battuta 74, nello stesso range raggiunto dagli archi, si tesse l’entrata quindi nella stessa fascia del gruppo di flauto, oboe e clarinetto, che recupera a canone lo stesso materiale di 73 degli archi, di conseguenza terminando una battuta dopo. L’entrata della viola, anticipazione del ritmo in terzine del soggetto, viene imitata a canone dal fagotto alla battuta seguente.
Il violino1, ormai già stabile sulle terzine, riprende la stessa testa della melodia di viola e fagotto – anticipazione della sezione successiva – rilanciandosi una ottava più in alto e rendendolo manifesto. I due sax riprendono la fascia coi ritmi veloci a 68, per poi esaurirsi subito sincronizzandosi con terzine e ottavi di tutti gli altri strumenti, ormai stabilizzati su questa figurazione più lenta. La densità delle fasce si sfalda fino a raggiungere la rarefazione di soli quattro strumenti di batt. 83 (Ex. IV).
La voce in questa sottosezione tace.
C – Batt. 84-93
Questa sottosezione è la chiave di volta della seconda parte del brano: presenta in maniera scoperta un materiale melodico, già anticipato a 38-41 da pianoforte e clavicembalo, affrontato in maniera prettamente contrappuntistica. L’ensemble è trattato a venti parti individuali, con il soggetto nelle due varianti fondamentali, ulteriormente variato con trasposizioni intervallari, inversioni melodiche e ritmiche, procedimenti retrogradi, aggiunte ritmiche nella coda. In conseguenza all’immissione della fascia di cluster di B, qui si lascia dominare la normatività della forma grafica delle linee melodiche. A partire dall’autonomia della singola parte si tende a sviluppare un andamento complessivo frastagliato e segmentato (gli intervalli del soggetto sono più ampi e melodici di quello della fascia, si utilizzano frammenti melodici), guidato dalla relazione di compensazione intervallare e di alternanza fra pieni e vuoti nello spazio astratto della partitura. In queste battute prevale quindi la dimensione contrappuntistica libera, dove comunque l’attenzione armonica è assorbita dalla decifrazione del soggetto trasposto e variato. Vi sono alcuni raddoppi di sostegno (corno, fisarmonica e pianoforte di batt. 87-89 in preparazione a voce e vibrafono su “Amor pleni” di 89-90), come d’altronde previsto nella tecnica classica del contrappunto.

Tutti gli archi in questa sezione tornano a una emissione ordinaria, a sottolineare la concretezza della propria individualità nel soggetto.
Contemporaneamente, piccole alterazioni timbriche – pianoforte con corde stoppate oltre gli smorzatori, clarinetto con frullati, armonici artificiali del violino1 – associate al profilo del soggetto (discendente e cromatico melodicamente, scolpito su ritmi plastici) e al suo rilancio continuo dai registri gravi a quelli alti, sono strategie che tendono ad assecondare un clima espressivo dolente e accorato, sopravvivenza immaginale e violentemente trasfigurata di una atmosfera barocca.
L’inizio di C è segnalato da un cambio di metronomo da 52 a 76 al quarto, ma la transizione viene creata senza soluzione di continuità da almeno battuta 76 della sottosezione precedente, dove violino1 passa dal flautato all’arco ordinario, e rilancia la testa di quello che sarà il soggetto con un’ottava ascendente rispetto al registro raggiunto dalla fascia, di cui nella versione più lenta inizia a modificare gli intervalli e i ritmi fino a conformarsi al carattere del soggetto di C. La stessa trasformazione viene subita anche dal resto dell’ensemble presente, e gli strumenti ponte fra le due sezioni sono il fagotto, la tromba e la viola. Alla conclusione della loro esposizione corrisponde l’entrata a 84 di clavicembalo e violoncello 2, la cui unione timbrica nel registro grave su intervalli dissonanti ma in disposizione omoritmica crea una immagine distorta del soggetto.
Il testo della voce « Horror vacui – Amor pleni » sottolinea lo slittamento di interpretazione dell’atteggiamento verso lo spazio, in questo caso acustico, che ci si impone di saturare; da paura del vuoto e patologia del riempimento si opera un rovescio simbolico verso un gioioso amore del pieno, e il neologismo di Lucienne Peiry Amor impleti, da me riadattato nel testo lirico in Amor pleni per esigenze di simmetria sillabica, « permette di considerare l’occupazione dell’intero supporto dal punto di vista della creazione e del desiderio di espressione e non della patologia » (Peiry 2021, pp. 26-28), interpretazione che viene assunta non solo a riferimento del bisogno espressivo di Fernando Nannetti ma anche a indirizzo poetico di questo passaggio della composizione.
La texture complessiva è sottoposta a densificazione e rarefazione, per poi ridensificarsi in maniera definitiva a batt. 92 e subire una torsione del tempo e del materiale a battuta 93, dove l’accelerazione veloce delle figure ritmiche riporta gli intervalli a un range cromatico denso e ridotto, e reintroduce le fasce di cluster della sezione B’ di battuta 94.
B’ – Batt. 94-106
La sezione B’ si struttura come una ripresa delle fasce di cluster di B’, su cui vengono inseriti e si alternano elementi lirico-drammatici tramite note lunghe in forte, veloci crescendo allo sforzato, e l’uso stabilizzato di raddoppi; questi elementi amplificano e rispondono a una espressività del solista che viene spostata verso una tecnica vocale più tradizionale, un cambio di registro scelto in conformità al testo.
Il testo utilizzato infatti esce dai confini del materiale inciso sui muri da Nannetti, e riprende gli estremi della sequenza di parole di senso e di sillabe “Oh ja! Orja, Feuerjo!” contenute nel sogno riportato da Freud nell’Interpretazione dei sogni. La temperatura dell’ensemble esprime l’agitazione e la confusione del sognatore fra le urla del sogno e le voci reali percepite al risveglio, che gridano Al fuoco dalla strada. In questa interpolazione testuale si opera un riferimento culturale più ampio al contesto della psicologia moderna, la cui nascita viene emblematicamente indicata con la prima pubblicazione del suddetto testo di Freud. Il ponte intertestuale con le vicende di Nannetti è stabilito nel quadro della riflessione nel ventesimo secolo dedicata alla espressione psichica dell’individuo, e alla discussione critica rivolta alla dicotomia fra espressione normale ed espressione patogena. Questa discussione giungerà ad assumere forma in Italia nella nuova Legge Basaglia del 1978, quadro normativo ispirato al superamento dei sistemi di approccio e di cura psichiatrica, sistemi fino a quel momento basati sul modello della detenzione penitenziaria.
Nell’arco generale del brano le dinamiche qui raggiungono un forte con accento pieno di intenzione drammatica a battuta 103 (ensemble) e 104 (solo la voce), ma la drammaticità significativamente è allontanata da una identificazione univoca nel soggetto di ispirazione del brano, bensì posta paradossalmente nel riferimento a una esperienza onirica che ragionevolmente non può essere letta nel tradizionale quadro della patologia, anzi è definibile una esperienza comune.
La fascia di cluster ai fiati e clavicembalo rimangono nell’ambito di La#/Mi senza spostarsi, mentre la fascia agli archi scende e assottiglia il suo ambito da Fa#Do a Si//Reb, subendo lo stesso rallentamento delle figure ritmiche verso la terzina già visto in B, con l’intenzione di intorpidire il moto ritmico. In 103-106 (Ex. VI) le terzine si spostano alle tastiere, e accompagnano in maniera fiorita la ripetizione insistita della voce che ripete il testo “Oh ja” su intervalli diversi e finisce fiorendo a sua volta sulle semiminime del ¾ “Feuerjo”, risposta dilatata ritmicamente agli accompagnamenti in terzine delle tastiere. In questa alternanza ho cercato di configurare il rapporto fra figura (frammento lirico) e decoro (fioritura), sperimentando la corrispondenza fra la scrittura su carta e i piani acustici.
Y – Batt. 107-110
In questa sottosezione di coda vediamo apposto ex-abrupto un gesto nuovo dell’ensemble, con del materiale apparentemente diverso. L’unico ponte, ma difficilmente percepibile, è il violoncello 1 fra 106 e 107, che dalla testa del soggetto in terzine si collega al materiale discendente della coda.
Le fasce di cluster in impercettibile movimento discendente della sezione B, in y diventano percettibilmente delle scale, informate del procedimento contrappuntistico sia nell’evitare l’omofonia sia nel proporre diverse entrate dove il movimento discendente è sovrapposto a quello ascendente. Le scale sono costruite secondo una sequenza di toni interi combinata con sequenze cromatiche, e i due tipi di sequenza si sovrappongono sommandosi in un cluster nel rapporto fra scale. Ricordiamo che il codice genetico di questa coda è anticipato nel frammento melodico ascendente di battuta 44.

Con questa sezione conclusiva del processo, in qualche maniera si giunge all’estremo opposto dell’introduzione x: se in x dominava la verticalità omoritmica del materiale armonico, a sua volta ridotto all’essenziale, e trattato con pulsazioni appunto omoritmiche, in y il materiale armonico è sfrangiato e disposto in linee orizzontali, la pulsazione si traduce in un aspetto ritmico dato dalle diverse entrate individuali e assume così un carattere più astratto e non viscerale, e prevale la sensazione generale di dinamismo in cluster su tutti i registri, rovescio dell’immobilità pulsante dell’inizio.
Z – Batt. 111-122
Z è concepita come una postilla, un supplemento a commento del ciclo apparentemente concluso, e nel processo compositivo è stata di fatto composta per ultima, dopo la scrittura che nell’ordine pratico ho affrontato nella sequenza y – B’ – C – B – A – x .
L’intenzione espressiva è affine in particolare a quella dell’epilogo in letteratura, ossia un capitolo a sé stante, estratto dal flusso narrativo, dove ci si commiata dal solista e dal pubblico con un commento conciso e, come vedremo, sarcastico. La qualità di questa intenzione è infatti di tipo ironico e paradossale allo stesso tempo, e si iscrive in una lunga quanto criptica tradizione di ironia in musica (citiamo fra tutti Schumann), e di cui forse Jankélévitch ha delineato i punti di riferimento, fra paradossi e rovesciamenti.
Il silenzio, la reticenza e l’allusione fanno assumere all’ironia un volto assai particolare. L’ironia è laconica. L’ironia è discontinua. Concisa soprattutto. L’ironia è una brachilogia. Sa che non è necessario dire tutto e ha rinunciato ad essere esaustiva: fa affidamento sull’ascoltatore per sollevare il senso con la leva del segno, sulla percezione per completare con dei ricordi i segnali della sensazione. E quand’anche si dovesse dire tutto, l’ironia sa che non può farlo, perché lo spirito è inesauribilmente ricco e il nostro linguaggio si suddivide all’infinito senza uguagliare le sfumature innumerevoli dell’emozione. Una semplice pantomima le sarà spesso sufficiente (Jankélévitch 1987, pp. 96-97).
E in effetti l’epilogo della partitura è una sorta di pantomima, una burla su cose gravi (Jankélévitch 1987, p. 86), e allo stesso tempo un riepilogo rovesciato di alcuni materiali utilizzati: da battuta 111 a 115 (Ex. IX), i fiati e la voce sono impegnati in una sciocca cantilena laconica che si muove su note accentate e staccate, colorate in maniera sgraziata dai frullati corti a distanza di semitono (Ex. VIII), nell’intervallo di quinta che era materiale strutturale tanto significativo della sezione A. Mentre la cantilena accelera e si incanta a 115, i tre violini a loro volta entrano con una pulsazione in accelerazione, e si tratta dello stesso gesto delle battute 2 e 3.

Mentre all’inizio del brano questa pulsazione in accelerazione e in diminuendo portava a una appoggiatura lunga che risaliva allo sforzato, qui gli archi accompagnano l’apparizione di una interpolazione di sole due battute a 46 al quarto di metronomo, che al contrario dell’inizio è però uno svuotamento dell’ensemble abbastanza improvviso. Il basso-baritono a 116 è accompagnato, in un improvviso momento intimo e cameristico (“Con la voce”), dalla stessa linea al pianoforte – ma dal timbro sfocato dalle corde stoppate, e dallo sfiato meccanico dei mantici della fisarmonica, concepita fra il respiro e la macchina, che accompagna solo dal punto di vista ritmico. La voce porta il testo di un’altra auto-presentazione di Nannetti, “Santo fotoelettrica cellula”, la cui sillabazione è inscritta nella melodia del soggetto che già conosciamo, per la prima volta alla voce. A battuta 118 vi è l’ultimo cambio di metronomo, accompagnato da una strana indicazione: “Laugh, but be serious” (Ex. X). La maggior parte degli strumentisti saranno impegnati con la voce in una serie di “Ha!”, mensurati in partitura, che rispondono a quanto ascoltato con una risata lenta e sarcastica, uno scherno dell’intero ensemble ancora più spiacevole in antitesi all’ “Ah” un po’ sciocco ma anche spensierato appena ascoltato in 111-115 (Ex. IX).
VII. RIEPILOGO DELLE TECNICHE UTILIZZATE E CORRISPONDENZE SIMBOLICHE

POSTILLA
A conclusione di questo spazio di auto-analisi, che ha trattato nel dettaglio la morfologia della mia composizione ma ha cercato anche di lasciare traccia del relativo processo compositivo, credo di dover sottolineare come lo stesso processo di analisi abbia uno statuto transitorio, e cioè non sia una sentenza definitiva, che sarebbe un verdetto in auto-contraddizione. Anche quando fatta dall’autrice medesima, l’esegesi ultima arriverebbe a contraddire la stessa natura dell’interpretazione, che è per definizione permeabile a ulteriori riletture e risignificazioni; e lo stato dell’arte coinciderebbe con la condanna a morte dell’opera d’arte stessa, che non sarebbe più autosufficiente ma teoricamente sempre bisognosa di una contestualizzazione univoca, puntualissima e restrittiva.
A epilogo di quanto esposto, ricollegandosi alla riflessione iniziale, lasciamo la stessa domanda sempre aperta, la quale inviterà certamente ad avviare processi ulteriori e differenti da quello appena esposto: come si combina l’ideazione di un progetto compositivo, la sua attuazione, e l’immaginazione del tempo percettivo?
BIBLIOGRAFIA
Freud, Sigmund. Opere complete. Torino: Bollati Boringhieri, 1967.
Florenskij, Pavel. Le porte regali. Saggio sull’icona. Milano: Adelphi, 2021.
Foucault, Michel. Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane. Traduzione di Emilio Panaitescu. Milano: Rizzoli, 1967.
Jankélévitch, Vladimir. L’ironia. A cura di Fernanda Canepa. Genova: Il Melangolo, 1987.
Leroi-Gourhan, André. Le geste et la parole. Parigi: Éditions Albin Michel, 1964.
Morton, Timothy. Iperoggetti. Traduzione di Vincenzo Santarcangelo. Roma: Nero Edizioni, 2018.
Peiry, Lucienne. Le livre de pierre. Parigi: Éditions Allia, 2021.
Stiegler, Bernard. De la misère simbolique. Parigi: Éditions Galilées, 2004.
ARTICOLI
Peiry, Lucienne. « Il soliloquio lapidario di Nannetti », Quaderni d’altri tempi, n°64 (2016), http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero64/mappe/q64_m04.html, consultato 10 agosto 2022.
Storia del manicomio di Volterra, https://manicomiodivolterra.it, consultato 2 Settembre 2022.
Voce « Gioco del Sig, del Mehen, della Iena », PerGioco.net, https://www.pergioco.net/5/sig.html, consultato 8 Agosto 2022.
La dissertazione è scaricabile in PDF su Academia.edu
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