Fachinelli, Elvio. Su Freud. Milano: Adelphi, 2012.


Su Freud raccoglie sei testi pubblicati da Elvio Fachinelli (1928-1989, Ill. I) tra il 1966 e il 1989. Fachinelli – di cui da qualche giorno Feltrinelli ha pubblicato un’interessante raccolta di articoli, con prefazione di Massimo Recalcati, con il titolo Esercizi di psicanalisi (Ill. II) – è autore di cui, da qualche anno, si riscopre l’importanza nel contesto italiano. Il primo di questi saggi, che da anche il nome al volume (Su Freud), è forse uno dei testi più interessanti poiché Fachinelli si pone l’obiettivo di enucleare « la novità freudiana nel mondo della cultura » (p. 25). Questo innesto è denominato da Fachinelli « archeologia del banale » (p. 24), con eco quasi foucaultiana, e consiste nel « trovare nel presente il passato e viceversa, nella passività l’elemento aggressivo e viceversa » (p. 25). Ma, ancor di più, Fachinelli si impegna a mostrare il legame indissolubile tra l’invenzione del metodo psicoanalitico e l’applicazione dello stesso su di sé: Freud non ha cioè mai omesso – questo emerge dal quadro fachinelliano – di implicarsi nella propria ricerca, di sperimentare su di sé quello che propinava al mondo. Ed è questo slancio “umanizzante” che rende le pagine fachinelliane ancora più attuali, quando nel contesto attuale fioriscono giornalmente testi e analisi – talune volte di dubbio valore critico – che tentano di scavare la tomba a Freud prima ancora di averne consumato la sconfinata eredità.
Si direbbe quindi che Fachinelli inneschi un tipo di analisi che ricalca quella che Freud ha riservato alle biografie degli artisti. Se è vero che, avvicinandosi alla vita di Freud, si ha la sensazione di una superficie che si « sbriciola » (p. 29), Fachinelli vi si approccia bypassando ogni forma di imbarazzo, sine ira et studio, prendendo in mano alcuni dettagli che si rivelano significativi. Come lo è per esempio il frammento La natura, scritto da Goethe, che colpì Freud durante una lettura pubblica (p. 32), e che rivela come una visione unitaria del reale e il perenne tentativo di riconciliarvisi fossero già in opera nella sua giovane età, o anche l’influenza del pensiero ottocentesco – della Naturphilosophie che al Kant della Terza Critica tanto deve – e, in particolare, del materialismo propugnato dal medico e fisiologo Hermann von Helmholtz. Infine, Fachinelli mostra come la prima formulazione ufficiale del metodo psicoanalitico abbia richiesto passaggi e interruzioni – vere e proprie crisi – che sfuggono ad uno sguardo impreparato. È il caso del rigetto, da parte di Freud, delle terapie allora in uso: l’elettroterapia e l’ipnosi. Ma quest’ultima, prima di essere del tutto abbandonata, permette a Freud di rimarcare un elemento cruciale: la suggestione ipnotica permette al malato di rivivere, nella seduta, il trauma originario e, nel caso di Anna O., questo semplice fatto permetteva al sintomo di scomparire del tutto. In molti altri casi, tuttavia, Freud dovette rimarcare la presenza di vere e proprie resistenze, di forze che si oppongono a una presa di coscienza diretta da parte del soggetto.
Ma, senza soffermarci qui sul già noto, vorremmo sottolineare con più forza come Freud – e Fachinelli lo chiarifica in maniera esemplare – abbia dovuto lottare non solamente contro se stesso e la sua educazione borghese attraverso un’autoanalisi che lo accompagnerà a partire dalla morte del padre (1897) fino alla fine della sua vita (1939), ma dovette anche tentare di ribaltare gli stereotipi di una società vittoriana e profondamente restia ad accettare una visione della sessualità come quella teorizzata da Freud: non soltanto era necessario riportare alla luce l’urgenza del corpo, « con i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue ramificate fantasie » (p. 44), ma è la stessa sessualità a raggrumare e a costituire ogni trauma che possa poi successivamente provocare una qualsivoglia sintomatologia nei malati, ma essa si estende anche nei meandri dell’infanzia.
Non mancano pertanto, tra queste righe, diverse annotazioni critiche che Fachinelli indirizza al pensiero freudiano. La costante è quella di una « feticizzazione positivistica del dato » (p. 45), frutto della cultura meccanicista e determinista di cui il pensiero di Freud era impregnato. Ma vi è anche, per Fachinelli, un limite « antropologico » nel pensiero freudiano (p. 71): ciò consiste nel fatto che la psicoanalisi ha quasi interamente saturato l’universo disciplinare, impedendoci di approcciarla come determinata forma nata di un determinato contesto, con i suoi limiti e necessitante di una propria autonomia scientifica; ma vi è anche il fatto che, per Fachinelli, i soggetti analizzati da Freud – e passati alla storia come “eroi” – sono il risultato di una ricerca quasi ossessiva del medico viennese per degli individui in grado di capovolgere la loro situazione di svantaggio in un momento creativo.
Se nel dispositivo analitico escogitato da Freud « si stabilisce uno scambio continuo tra ciò che [egli] impara dai suoi malati e ciò che ricava da se stesso » (p. 46), ed in definitiva, l’esercizio dell’analisi sull’altro illumina l’autoanalisi stessa è da chiedersi quanto la direzione della psicogenesi individuata da Freud – condensata nel « mito dell’artista », dove « situazioni umane caratterizzate da un’inibizione, da un blocco, da uno scacco vitale » (pp. 71-72) si sublimano, quasi per compensazione, in vocazione artistica e potenza creatrice – sia il risultato dello stesso desiderio di rivalsa freudiano proiettato sui soggetti in analisi.