Malaparte, Curzio. Mamma Marcia. Firenze: Vallecchi, 1959.
Io ho la natura di cane, e avverto gli odori, le presenze invisibili, gli oggetti trasparenti, incorporei. In quei momenti il mondo non sta di fronte a me oggettivo, ma in me: son pieno d’alberi, di pietre, di case, esseri viventi, uomini e animali. Gli oggetti non mi stanno di fronte, non sono Gegenstand, cose che mi stanno di fronte, in fiammingo: voorwerp. Non sono cose materiali in quei momenti, ma corpi invisibili, incorporei. Io sentii che mia madre era lì, vicino a me, e mi guardava. Come un oggetto trasparente, invisibile. Quel che gli antichi chiamavano ombra. Ed era tuttavia né chiara né scura, non era un ombra, era un oggetto invisibile, una presenza incorporea. Sentii che stava per morire, che forse era morta: che non era soltanto un oggetto, ma un Entwurf, in fiammingo: ontwerp, in svedese: förslag. Un oggetto futuro, una presenza non solo irreale, ma inattuale. Un oggetto futuro, proiettato nel futuro, un progetto, un Entwurf.
Curzio Malaparte, Mamma marcia, p. 53-54.


In queste pagine, comparse nel 1959 postume – due anni dopo la morte dell’autore – grazie ad Enrico Falqui, emerge una visione dell’Europa tragicamente vicina a quella che è possibile scorgere nella nostra sconfortante attualità. Chi è la “Mamma marcia”, se non l’Europa come parola che impasta la bocca di molti intellettuali (di cui, fra i tanti, vi è un Sartre molto criticato da Malaparte)? Cosa può partorire un continente che si è stravolto a tal punto, che è martoriato da due guerre insanabili se non della prole già morta, già destinata al fallimento?
Certamente l’Europa nuova, i nostri figli, nasceranno dal cadavere di una donna incinta, dai mille e mille cadaveri di donne incinte sepolte sotto le macerie – disse Guy Tosi.
– Tutti i cadaveri sono gravidi – dissi – hanno il ventre pieno di feti mostruosi: basta il peso del nostro passo sulle macerie dell’Europa, per fare uscire dall’utero di questi cadaveri incinti i feti della gioventù (Malaparte, 1959: 12-13).
Apparentemente, questo testo non conta di alcuna coesione formale: perciò si rivela essenziale nella comprensione dello scrittore Malaparte – perché, di fatto, se il tono che permea i differenti capitoli è quello di una confessione, di un soliloquio, di qualcosa che non si vorrebbe e non si dovrebbe pubblicare con tanta facilità, ciò non inficia in alcun modo la pregnanza del contenuto e, anzi, la corrobora. Per chi conosce già Malaparte, lo troverà qui sotto una facies situata al di là dell’artificio e di qualsiasi barocchismo, un Malaparte di cui quasi percepiamo la flebile voce prima di lasciare questo mondo.
Ma, se è vero che è solo lo stile che regge l’unità di queste pagine, quest’approdo ad un essenzialismo a tratti radicale è certamente un espediente per fare i conti con la propria biografia. Più della metà del libro consiste in un dialogo ininterrotto tra Malaparte e sua madre, ma anche tra Malaparte e la propria terra. Difficilmente possiamo evitare di accostare le pagine che descrivono la morte della madre con quelle del contemporaneo Camus ne L’étranger, difficilmente cioè possiamo vedere quale abisso separa i due narratori. “Mamma marcia” è anche ciò che attende sua madre, i vermi, la terra, l’oblio. Tale consapevolezza fa sì che Malaparte, l’intellettuale aspro e crudele che aveva tanto scandalizzato il contesto italiano con la pubblicazione de La Pelle, si trovi totalmente disarmato di fronte al corpo della madre morente. Appare allora chiaro finalmente il Leitmotif delle pagine: il disastro della morte.
Non ho paura della morte – disse mia madre – io chiudo gli occhi e immagino teschi e scheletri, e tibie spolpate, e fronti senza occhi, e mani senza carne, e non ho paura. Ti confesso che mi fanno ridere. Tutte quelle cose dei pittori fiamminghi, tutte cose da ridere – disse mia madre – non ti pare? Tutte cose da ridere – e rideva, scuotendo leggermente la testa sul cuscino. Rideva mostrando i denti, quei denti nel viso scarno, smunto, quella fronte nuda, con i capelli, madidi di sudore, sparsi in disordine sulla fronte, erano proprio il teschio di una morta, certi visi di Goya, quando era nella sua migliore vena rosea (Malaparte, 1959: 75-76).
Vieppiù che la seconda parte del volume opera una sorta di intelligente slittamento tra dimensione privata e dimensione pubblica, come se Malaparte si rivolgesse – come di fatto fa nella Lettera alla gioventù d’Europa – a coloro che lo leggeranno, al suo uditorio inattuale. Così le due dimensioni si incontrano – quella del lutto familiare e quella del lutto collettivo – quando Malaparte descrive il progressivo e inesorabile consumarsi della vecchia Europa a partire dalla nuova folla di invertebrati e (per lui) scostumati che invade le strade di Parigi. Il “comunismo” non è per lo scrittore pratese un insieme di ideali politici da discutere, ma una posa volgare che nasconde solo l’ennesimo procedimento di disciplinamento. Ma, in tutto ciò, le amare parole secernono loro malgrado una delicatezza, un riserbo segno dell’ambigua ma anche amorosa liaison di Malaparte verso Parigi e la sua intellighenzia.
In che senso, allora, dovremmo rileggere Malaparte? A questa domanda è possibile rispondere se ci si interroga, al contempo, sull’eredità del fascismo. Che Malaparte abbia aderito, per alcuni mesi, al fascismo è un peccato che non gli si perdona tutt’oggi, nonostante egli sia poi stato mal visto e imprigionato dallo stesso Mussolini. Non a caso dimorano impolverati i dodici volumi delle opere complete redatti per Ponte alle Grazie dalla sorella, Edda Ronchi Suckert, segno di questa generale damnatio memoriae. Mamma marcia è lo sguardo radicato di un uomo che ha il coraggio di non mentire a se stesso. L’inestimabile valore di queste pagine, se non per la Verità stilistica già da tempo riconosciutagli, è quello di riattivare un processo dialettico e critico. Che alcune delle sue esternazioni – come quelle che si trovano nell’ultima parte di Mamma marcia – risultino oggi inaccettabili e inascoltabili, non può implicare una rimozione di questo autore dalla memoria culturale. Ma in un’epoca dove la comprensione e l’ascolto del passato si esternano attraverso l’abbattimento delle statue e dall’obliterazione di intere pagine di storia dai corsi universitari, è forse possibile dar torto allo stesso Malaparte?
Ma agli Italiani non piace sentirmi parlare così. Leggono i miei libri, ma non vogliono dir certe cose. Sanno di essere in colpa. Perché è la verità, mamma, quello che dico.
– Sì, è la verità – disse mia madre
– Leggono i miei libri, ma non piace loro leggere certe cose. E allora mi calunniano, raccontano su di me cose talmente grosse, che sono perfino ridicole. Dicono che non amo l’Italia, perché un buon italiano non dice certe cose. Amano essere governati dagli sbirri, mamma, amano essere umiliati, oppressi, offesi. E quando parlano di libertà, è sempre sottinteso che parlino di una libertà governata dagli sbirri. Parlano di giustizia, ma di una giustizia amministrata dagli sbirri. E se uno dice loro: “Voi siete degli schiavi, dei miserabili servi” allora si offendono, e rispondono che chi parla così non è un buon italiano (Malaparte, 1959: 23-24).