Schneider, Marius. La musica primitiva. Milano: Adelphi, 1992
Situata tra le tenebre e la luce del primo giorno, sul piano umano la musica si trova fra l’oscurità della vita inconscia e la chiarezza delle rappresentazioni intellettuali; appartiene dunque in gran parte al mondo del sogno.
Marius Schneider, La musica primitiva, p. 20-21.


Questo testo del musicologo tedesco Marius Schneider, originariamente pubblicato in francese come voce nel volume collettaneo Histoire de la musique, vol. I, edito da Gallimard nel 1960, è stato tradotto con il titolo La musica primitiva. Il titolo originale recitava, più precisamente: Le rôle de la musique dans la mythologie et les rites des civilisations non européennes. Ed effettivamente, è un ritratto – caotico e dispersivo come la materia in questione – di quale funzione avesse la musica nella cosmogonia delle civiltà antiche. Se utilizziamo la parola “musica”, lo facciamo ricordando come, nel momento del Weltgeist a cui si riferisce Schneider, non esista una chiara differenziazione tra suono e musica. La parola degli dèi, il tuono, il tamburo, la voce delle pietre: tutto ciò costituisce la musica primitiva.
Le prime pagine inaugurano il discorso della cosmogonia sonora: in tutti i miti di creazione interviene un elemento acustico. Gli stessi esseri divini sono spesso identificabili in “immagini acustiche”, essenze eteree e invisibili, che divengono figure solo al momento di una decadenza. Nei primi attimi di vita del cosmo, “la musica è la sola realtà”. Tramite il canto, gli dèi estromettono materia: creano. Questo è il processo che Schneider chiama “sacrificio sonoro”: si tratta di uno sforzo, un movimento, tramite il quale avviene il trasferimento delle forze. Tutto quello che gli dèi fanno, è fatto tramite recitazione cantata. Il canto è il dio, è cioè il trasferimento della sua forza nel mondo. Ma, una volta creato il mondo e gli uomini, sono questi a sacrificarsi per gli dèi, evocandone i poteri. Essendo, il canto, la loro fonte di nutrimento oltre che la loro essenza, gli dèi non possono ignorare i sacrifici sonori degli uomini; la musica è, in tal modo, l’unico espediente certo in grado di ricongiungere i due poli – cielo e terra.
All’uomo è stato affidato il compito di salvaguardare le specie viventi. Nel rituale del sacrificio sonoro, l’uomo si sostituisce al dio: imitando il suono originario delle cose – e degli esseri – egli diviene così in grado di ri-animarle. Possedere il suono (il nome) di un ente permette quindi di controllarne il destino.
La radice, la potenza e la forma di tutte le cose esistenti sono costituite dalla loro voce e dal nome che portano, perché tutti gli esseri non esistono se non in virtù del solo fatto di essere stati chiamati per nome (Schneider, 1992: 17).
Un continuo scambio tra i due mondi è possibile solo grazie al canto e, precisamente, grazie al fatto che i rituali cercano di realizzare – di captare, dovremmo forse dire – una traccia del canto primigenio, il canto degli dèi quando crearono tutte le cose. Il mago, nelle società tribali, è così fornito di uno strumento risonatore, un arnese tramite il quale egli prolunga il suono divino in terra. Tramite questo oggetto, è in grado di riprodurre i suoni – con la “voce intonata” – delle cose che lo circondano: dagli alberi, alle rocce, fino agli animali stessi. Il mago-sciamano è quindi un essere fuori dall’ordinario, che per tali ragioni è sottoposto ad un cammino iniziatico assai duro, al fine di poter entrare in quello stato di trance tramite il quale è possibile comunicare con gli spiriti.
Per mezzo della voce intonata, il mago riesce dunque a risvegliare gli dèi e gli spiriti che animano gli oggetti e a identificarsi a loro. Una volta che le sostanze degli spiriti evocati siano penetrati nel suo corpo, il mago cerca, facendole parlare con la bocca, di imporre loro la sua volontà inserendo il grido-sostanza in una canzone che, per mezzo delle parole, imprima a quella forza la direzione desiderata (Schneider, 1992: 69).
E, in questo sguardo animistico, anche lo stesso strumento musicale è impregnato di forze, richiamando l’atto cosmogonico degli dèi. Tra tutti gli strumenti, spicca il tamburo (Ill. I): costruito con un legno puro, esso rappresenta il fulmine e il tuono e, in alcune civiltà (India) esso è venerato come un vero e proprio dio.
Il basso continuo di queste pagine è il fatto che l’essenza dell’uomo è acustica. Così, le Upanisad dicono che solo “colui che ha l’udito come regno” è un vero saggio. Il mondo magico (il mito) cede, tuttavia, spazio al mondo religioso, in cui la musica non è più l’essenza dell’equilibrio tra cielo e terra, ma diviene una mera tecnica da padroneggiare per poter imitare la natura.