L’INDISPENSABILE VENTO NON IN VENDITA. SU ALCUNE DICOTOMIE NELLE POETICHE DI VINKO GLOBOKAR E PETRA STRAHOVNIK

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Patrick Votrian (sinistra)
&
Vinko Globokar (destra),
Ginevra (1990)

Tutto il divenire è dato dal movimento
Paul Klee, Notebooks, vol. I. The thinking Eye (1961), p. 78.

T. I

Non possediamo tutto questo muschio, questi bizzarri fiori, radici, tronchi e raggi di luce che ci attorniano o significano, poiché noi siamo tutto ciò, poiché noi siamo a esso troppo vicini, vicini allo spettrale, all’ancora innominato della coscienza o del diventare-interiore. Ma da noi divampa il suono come una fiamma, il suono ascoltato, non il suono in sé o le sue forme. E senza mezzi estranei ci indica il cammino, il cammino storicamente intimo, come un fuoco in cui non l’aria vibrante ma noi stessi incominciamo a tremare e a toglierci il mantello.

Ernst Bloch, Spirito dell’Utopia, a cura di Francesco Cappellotti (Milano: BUR, 2010), Filosofia della musica, 53.

T. II

Ricordo che ho iniziato a pensare a quali strumenti avrei dovuto utilizzare. E la decisione finale è stata che non ho bisogno di nessuno strumento. Se non c’è strumento, c’è solo il corpo. Quindi sono rumori del corpo. Questa era l’idea. Poi ho iniziato a studiare sul mio corpo come suonano le varie parti. C’è un’incredibile gamma di rumori prodotti sul corpo. Ma nel mezzo del pezzo, dove l’esecutore è sdraiato sul pavimento e dorme – si sentono rumori del sonno e così via – ho pensato che avrei dovuto in qualche modo elaborare l’invenzione del parlare. Nella storia, prima che le parole venissero pronunciate, si facevano i versi animali. Ebbene, nel pezzo c’è una frase del poeta René Char: “La storia dell’umanità consiste in una lunga serie di sinonimi per lo stesso termine.

Karolin Schmitt-Weidmann, Der Körper als vermittler zwischen Musik und (All)Täglicher Lebenswelt (Bielefeld: transcribt Verlag, 2021), 317.

Video I – Vinko Globokar – ?Corporel (1985) eseguito da Nikki Joshi

Video II – Petra Strahovnik, disOrders‘Through the looking glass’, n. 5, Lost in Time, per violoncello (2019), eseguito da Ensemble Modelo62 (Jan Willem).

Ill. I – Paul Klee, Sites of Worship (1958), immagine tratta da Socks-studio.

Video III – Vinko Globokar, Concerto Grosso (1969-1975), eseguito alla Haus des Runfunk, Berlino, 1997.
Audio I – Petra Strahovnik, I.N.D.I.G.O, quintetto di fiati, duo di percussioni e nastro (2009).

Audio II – Petra Strahovnik, Amaranthine, pianoforte preparato con magneti ed elettronica (2018).

Video IV – Petra Strahovnik, Prana (2018), eseguito dall’Orchestra Simfonica RTV Slovenija.

Video V – Vinko Globokar, Kaleidoskop im Nebel (2012-2013), eseguito da The Calithumpian Consort.

Rendere udibile, portare in vita, come procedimento di continuo dialogo tra il compositore e il musicista, nella ricerca sulla sottile linea tracciata ai limiti tra forze opposte che trasformano il materiale sonoro, è al centro del pensiero creativo nella musica contemporanea. Nel seguente articolo ci si interroga sulla necessità della creatività musicale di esaminare alcune dicotomie (corpo e spirito, individuo e collettivo, passivo e attivo) e cercare la vitalità del suono ala soglia tra i poli di tali opposizioni opposti. Concentrandoci sulle opere dei due compositori sloveni appartenenti a generazioni diverse, Vinko Globokar (1934) e Petra Strahovnik (1986), si cerca di descrivere il movimento, ovvero il pensiero creativo, che avviene nello spazio liminale, dove il dualismo si può fondere. Il mondo sonoro e immaginario del compositore Vinko Globokar, che cresce dall’eredità del modernismo, è messo in relazione con la ridefinizione delle bipolarità e la nuova ricerca del legame tra il compositore e l’ascoltatore percepita nella musica della compositrice Petra Strahovnik. Globokar, suggerendo all’ascoltatore domande che interessano i campi della politica, della sociologia e della psicologia, usa il pensiero non-musicale per mettere in evidenza gli aspetti contrastanti degli spazi, immaginari e fisici, abitati dalla musica. Parallelamente la compositrice Strahovnik invita l’ascoltatore a condividere e seguire la sua ricerca personale a  trascendere i dualismi con l’immaginazione musicale. Essa produce movimento, un vento che annoda le linee di divisione tra tali  polarità. Ciò che costituisce il vero punto di contatto tra le poetiche di Strahovnik e Globokar è la necessità di attingere alla precarietà dell’equilibrio nello spazio liminale. Come si percepisce questo movimento sonoro? L’utopico equilibrio produce un utopico spazio di “autoincontro” (T. I)?

IL CORPO-STRUMENTO TEATRALIZZATO E IL TEATRO DEL CORPO-STRUMENTO

Nelle poetiche di entrambi compositori il legame tra il corpo e lo strumento, letteralmente messa in scena del legame tra corpo e spirito è onnipresente. Per Globokar, trombonista che scopre la composizione tramite le esperienze da strumentista tra musica jazz e musica classica, lo strumento non è un oggetto sacro, ma solo l’estensione del corpo, e lo strumento esiste come conseguenza dell’idea musicale. Da abile strumentista ha collaborato con vari compositori tra cui, cruciali per il suo sviluppo compositivo, Mauricio Kagel, Karlheinz Stockhausen e Luciano Berio, di cui ha eseguito per primo la Sequenza V. Dal punto di vista compositivo, Globokar suggerisce di adeguare lo strumento all’idea, che però va prima espressa con il canto – ovvero con il corpo. 

La composizione, costruzione, estetica e filosofia, sulla quale si appoggiano le idee, dettano la gestione dello strumento. Il compositore ha il diritto di andare oltre ial limite dello strumento. Se lo strumento non è adeguato alla composizione, lo può modificare, ci rinuncia, lo sostituisce con un’altro oggetto sonoro”. (Globokar, 2002: 95)

Invece, dal punto di vista esecutivo, Globokar sottolinea l’importanza del confronto tra il corpo e lo strumento: “Se vogliamo vedere la continuazione del nostro corpo o un rinforzo di noi stessi nello strumento musicale, incontriamo ostacoli di natura meccanica, acustica, psicologica, ai quali dobbiamo opporci; in linea di principio dobbiamo agire come se gli ostacoli non esistessero (Globokar, 2002: 202). Non tralasciando l’importanza dell’immaginazione, sottolineata nella conscia negazione del limite dello strumento di imitare la voce umana, ad interessare il compositore è il risultato sonoro che si forma nelle crepe create dalla casualità. Essa dà vita ad una tessitura precaria con accumuli di energia, percepiti quasi a livello palpabile, prima dell’emissione del suono. Date le condizioni inusuali nelle quali sono posti gli strumentisti, la musicalità è in stretta connessione con l’utopia di creare un suono apparentemente impossibile e inaudito.

Questo tipo di energia muove anche le idee musicali nella composizione ?Corporel. Il brano è influenzato soprattutto dai lavori del compositore Mauricio Kagel, fondatore nel 1959 del gruppo Kölner Ensemble für Neue Musik. Quasi trent’anni dopo, nel 1985, Globokar scrivendo ?Corporel osserva ancora il corpo ma dalla sua prospettiva personale. Se nei lavori di Kagel troviamo principalmente due aspetti della corporeità nella musica – il primo che vede la musica direttamente nel contesto teatrale e il secondo che ne teatralizza l’esecuzione – Globokar costruisce la sua composizione facendo suonare i gesti sul corpo: i suoni prodotti sulla pelle risuonano attraverso altri tessuti organici e le ossa, il corpo intero che diventano cassa di risonanza. Nonostante la ricchezza sonora, ?Corporel non è emerso per una ricerca del suono nuovo, ma bensì come reazione ad un aumento inflazionistico dei generatori di suoni di batteria e al relativo accumulo di materiale negli anni ’50 e ’60. La composizione inoltre non avrebbe senso senza la parte visuale (Schmitt-Weidman, 2021:138) ed essa rappresenta in nuce un principio compositivo, quello di far suonare i gesti e non il contrario (T. II).

La composizione ha una forma ben delineata ma non precisamente definita in termini di temporalità e durata dei gesti, e  per indicare i vari suoni usa delle didascalie descrittive . Il compositore è  evidentemente concentrato sui gesti, la volontà è di una evasione dalle convenzioni della musica classica. Non gli interessa la notazione perfetta né l’esecuzione virtuosistica, ma la ricerca della pura energia. La notazione in ?Corporel non riguarda la durata, come già detto, o l’altezza, ma il significato e l’intensità dei gesti. “Invece di scrivere la musica che di conseguenza crea gesti, facciamo l’opposto e scriviamo i gesti, che creano la musica […] ” (Globokar, 2002: 97).

È evidente l’aspetto ludico come pratica preliminare della composizione di Globokar. Pertanto la composizione vuole riportarci al primordiale, a una sorta di autenticità senza sovrastrutture culturali,  evitando di enfatizzare la spiritualità e in parte anche ritualità che ci aspetteremmo in un’idea estetica che si focalizza sul gesto. Senza mai allontanarsi dal corpo, rendendo la musica dipendente totalmente da esso, il compositore ancora una volta mette al centro della sua creazione l’uomo e la sua creatività.

Allo stesso tempo anche nella notazione del brano osserviamo la necessità di “umanizzazione”. La musica nelle convenzioni classiche della notazione appare come serie di punti neri e linee disposte in schemi. Con il suono tolto da essa, la linea musicale subisce la stessa sorte della linea tracciata o dipinta una volta che il colore viene drenato (Ingold, 2015: 110). Globokar non vede la necessità di porre troppo peso sulla notazione stessa, ma si spinge oltre cercando di semplificarla. Egli specifica che è possibile umanizzare la musica, evitare che essa diventi solo una serie di linee, solo se umanizziamo anche il compito dell’esecutore. Rimanendo sempre restio riguardo all’abbandono definitivo della musica scritta, osserva che l’organizzazione minuziosa, anziché condurre alla libertà creativa, porta alla rigida predeterminazione della forma ed esclude il potenziale creativo dell’esecutore (Globokar, 2002: 9). 

La forma in sé è la fine, la morte

Paul Klee, 1973, p. 269.

?Corporel (1985), il teatro del corpo-strumento, rappresenta un gioco intimo, personale, che dà spazio alla parola solo dopo il susseguirsi di oasi dove si approfondisce il respiro, il gesto e l’esperienza del linguaggio infantile. La composizione non attinge al virtuosismo,  ma bensì alla personale esperienza di riuscire a pensare ai gesti come nuovi, sconosciuti alla routine. A questo punto occorre chiarire anche l’aspetto pratico dell’esecuzione pensata a torso nudo. Il corpo nel caso della composizione di ?Corporel non è visto come prodotto della società, ma solo come strumento musicale pensante al quale il compositore dà fiducia e quindi diventa un luogo per esprimersi.

“Una donna [in video I Nikki Joshi] che esegue una versione attentamente ponderata di questo pezzo è infatti una rottura con il ricorso predefinito a vecchi formati e contesti di comunicazione. Ammetto che mi piace il disagio che provoca una simile performance; è potenziante” (Smith, 2012: 31).

Si evince certamente nel pensiero compositivo di Globokar la necessità di interrogarsi su dove sia il confine tra  musica e non-musica. Giocando con questa ambiguità il compositore cerca di creare  uno spazio temporaneo costituito sul pensiero che vuole sempre evadere dalle definizioni. L’artista, secondo Globokar, è colui che aspetta il treno sul binario sbagliato, sapendo che il treno non passerà mai. 

La musica di Globokar si dispiega come linguaggio del corpo e delle sue membra, e si lega alla parola creando un’esperienza dei gesti fisici che comprende anche un processo di comunicazione complesso tra il compositore, l’interprete e l’ascoltatore. Questo legame comunicativo è importante anche per le composizioni di Petra Strahovnik in collaborazione con l’Ensemble Modelo62. Il corpo come strumento teatralizzato assume il posto centrale nelle sue ultime opere. La compositrice, che esplora i mondi sonori senza paura di oltrepassare i confini invisibili tra ambiti diversi, cerca il modo per suscitare nell’ascoltatore empatia per il musicista. In questa empatia vede una possibilità di apertura verso le persone che soffrono di malattie mentali e una maggiore comprensione della emarginazione che ulteriormente vivono. Nelle sue composizioni, al contrario di quello che abbiamo osservato in Globokar, il corpo è visto anche come prodotto della società. “Usando non solo i suoni ma anche tutti i movimenti per far sentire le rappresentazioni delle malattie mentali autentiche, si spera che il pubblico senta la lotta e alla fine provi compassione per l’esecutore e la sua condizione. Musicalmente, i pezzi consisteranno in suoni che si riferiscono a come immagino ogni specifica condizione di salute mentale. Di solito, quando compongo, presento io stessa il materiale sonoro, ma in questo caso avrò bisogno che i musicisti siano coinvolti. La mia intenzione è quindi quella di trovare i suoni lavorando insieme ai musicisti in modo che i gesti sonori provengano anche da loro stessi ”. 

Nei lavori di Petra Strahovnik non poche volte abbiamo la sensazione di sentire l’eco dei lavori di Globokar, mentre la sua ricerca di nuovi mondi sonori, elemento centrale della sua opera, sembra continuare la convinzione che “le fondamenta di ogni lavoro o processo sono l’idea. […] Dobbiamo inventare fino a quando non ci danno per pazzi” (Globokar, 2002: 208).

La mia convinzione”, afferma infatti Petra Strahovnik, “è che l’arte della performance permetta a un musicista sia di sperimentare che di comunicare un dato messaggio in modo diretto e reale. Ho scelto di unire la performance con la mia musica per il tema delle condizioni mentali perché ho bisogno che gli artisti sentano e trasmettano il messaggio realmente e dal profondo di se stessi. Solo allora il pubblico potrà viverlo appieno”.

Nelle parole di Globokar, la musica impura, quella iniziata nel non-musicale, è portatrice di un senso che va oltre al suono, ma paga il prezzo dell’impurità sfruttando gli elementi visivi: l’illuminazione in scena, l’introduzione di diversi oggetti sonori, gli spostamenti non casuali nello spazio. (Globokar, 2002: 151) Tutti questi elementi sono fondamentali nella composizione di Petra Strahovnik. Nella ricerca dell’utopia del nuovo, del mai udito, il compositore dev’essere pronto ad immergersi nell’impuro. In questo Strohovnik è erede di Globokar, come si evince in particolare nel  progetto disOrders – ‘Through the looking glass’ (2019) più che in ogni altra sua opera . Il lavoro completo include 5 pezzi per cinque strumentisti solisti che affrontano diverse condizioni mentali: Tromba – Autismo, Chitarra – Depressione, Clarinetti – Disturbo bipolare, Violoncello – Disturbo d’ansia, Percussioni – ADHD. Ogni pezzo ha una durata di tre ore continue. Già suggerita dai titoli, ma ancora più evidente all’ascolto, è l’elaborazione dello spazio temporale per rappresentare le malattie mentali.

Lost in time per violoncello rappresenta il disturbo d’ansia. Il corpo del violoncellista con i suoi gesti e movimenti non sempre conduce la linea sonora, ma si mette in corrispondenza con essa. Come altera la percezione del suono questa giustapposizione del corpo che gira su se stesso, producendo energia senza alcun risultato sonoro, e il violoncello che tace tra le mani del musicista in movimento? L’energia creata dal movimento circolare crea una sensazione di crescendo interminabile che alla fine risuona nell’urlo dell’esecutore. L’urlo in questo caso assume un significato simbolico di attenuazione di tensione. La collaborazione tra due elementi semplici, uno gestuale, l’altro sonoro, risulta in una culminazione musicale data dalla corrispondenza tra il gesto musicale teatralizzato e l’accumulo di energia cinetica tramutato in suono. Pertanto i gesti usati in questa composizione non sono totalmente stilizzati, né totalmente astratti e non possiamo nemmeno ricondurli ad un’azione specifica: la gestualità dell’esecutore in questo caso allude all’organicità di certi procedimenti mentali.

A differenza della composizione Inori (1974) di Stockhausen, i gesti non sono trattati come composizione, bensì è la composizione ad essere dettata dal gesto, che a sua volta è dettato dalla necessità del corpo di elaborare il pensiero. Quindi il suono, in questo caso, vuole essere una conseguenza di un gesto spontaneo. È inoltre importante sottolineare anche l’aspetto opposto, ovvero il gesto spontaneo in risposta al suono che avviene nella composizione. Infatti, il corpo, in questo caso, si estende sia tramite il violoncello che tramite un’installazione di emisferi bianchi di polistirolo collegati tutti tra loro come in una nuvola. La compositrice usa spesso il polistirolo come amplificatore del suono. In questo pezzo in particolare il polistirolo è disposto nello spazio come una grande nuvola sospesa e collegata insieme da un filo invisibile sul quale il violoncellista suona con l’archetto, quasi invocando il cielo. Il suono prodotto scatena una forte interiorizzazione e ruminazione, un infinito girarsi su se stessi: la situazione senza via d’uscita fa spezzare il filo di collegamento tra il “cielo” e il musicista (Video II).

Mi interessa – spiega infine Strahovnik – come ogni individuo percepisca la propria vita e il mondo in cui viviamo. Soprattutto gli individui che potrebbero avere una visione completamente diversa in base a come la loro elaborazione neurale si discosta dai neurotipici della società, che è ciò di cui trattano le cosiddette condizioni di salute mentale. Inoltre, la mia storia personale mi fa venir voglia di rompere il tabù delle condizioni mentali per prevenire la sofferenza e diffondere consapevolezza nella società. Spero sinceramente che questo progetto possa aiutare a fare questo.

INDIVIDUUM-COLLECTIVUM

Alcune composizioni musicali di Strahovnik e Globokar, che trattano a livello astratto la vita individuale e collettiva, sono simili a un intreccio di tanti fili, in quanto processi aperti lineari. L’avvolgersi delle vite individuali, come i tanti fili di una corda (Ill. I), protraendosi nel tempo costituiscono un’unità che è sempre in sviluppo, mai finita (Ingold, 2015: 11). Le opere di Globokar, aspirando a rispecchiare processi sociali, non vorrebbero mai essere finite. Infatti, nella stesura del diario di modelli per una improvvisazione guidata Individuum-Colletivum egli si fermò alla terza parte proprio perché iniziò ad avvertire seri dubbi sulla necessità di portare a termine una forma, come anche sull’utilità degli scritti teoretici e didattici riguardanti la musica. (Globokar, 2002: 218) Quasi tutte le composizioni di Globokar e anche la raccolta Individuum-Colletivum affrontano tre temi: la relazione tra esecutori, relazione tra la musica e il extra-musicale, la percezione del mondo che ci circonda come pieno di possibili oggetti sonori. Il primo brano della raccolta, che ad oggi include 36 modelli, è stato composto nel 1979 e ci invita a pensare la nostra musica sia dentro i modelli predisposti che al di fuori. Tale invito del compositore a prendere questi modelli come spunti per creare una composizione originale non è l’unica caratteristica che rende attuale questa raccolta. L’aspetto interessante risiede nella scrittura che si dispone su tre livelli: il primo pensato per bambini ed amatori, il secondo caratterizzato da una notazione tradizionale, il terzo invece che include una spiegazione del concetto alla base del modello. Si può vedere chiaramente che il compositore cerchi soprattutto, in quasi tutti i suoi brani, di descrivere prima le relazioni e i modi per avviare la comunicazione su piani diversi. Nella ricerca di questa comunicazione all’interno del brano, il compositore adegua la sua scrittura ai musicisti che ha di fronte. In questo senso la musica scritta, in quanto oggetto, per Globokar non ha nessun valore oltre la necessità di comunicare con i musicisti, e a sua volta farli comunicare tra loro. L’ascolto delle sue opere oggi ci fa pensare all’importanza della comunicazione, sia nella musica scritta che in quella non scritta.

In tanti casi la musica improvvisata e la musica notata, sebbene siano codificate attraverso la scrittura o la comunicazione tra musicisti in diversi modi, ottengono talvolta risultati simili a livello di comunicazione tra i membri del gruppo ed anche a livello sonoro. Esiste quindi una comunicazione “non scritta” tra i musicisti, della quale non sempre si tiene conto nelle scritture contemporanee. Quando a costituire il brano non è più il suono come oggetto, ma il suono come informazione comunicata dal musicista che tende a mettersi in dialogo con gli altri, anche la scrittura inizia a basarsi sugli aspetti relativi alla comunicazione, e non viceversa.

Da questa linea di comunicazione il compositore non esclude la percezione personale della musica. Questo aspetto è messo in luce soprattutto nel Concerto grosso (1969) per 5 solisti, 23 strumentisti, coro amatoriale e coro professionale. Qui il compositore fa vedere due diverse direzioni della comunicazione: da una parte il messaggio complesso parte da un solista per arrivare a semplificarsi nel canto di un coro amatoriale, dall’altra invece assistiamo al processo opposto: il coro amatoriale vocalizza quello che sente nelle cuffie (per esempio suoni di animali) e lo comunica ai solisti (Globokar 2002: 178).

Gran parte della riflessione estetica di Globokar parte dall’idea, che la percezione della musica dipenda strettamente dal vissuto dell’ascoltatore. Ognuno crea un proprio  “cinema interiore”, come lo chiama Globokar, ed è per questo che il compositore nell’atto creativo si sente libero e non vede la necessità di seguire nessuna linea, se non quella tracciata da lui stesso. Al di là della tradizione postmoderna, molto presente nei pensieri di Globokar, questa posizione descrive una necessità di indipendenza creativa assoluta con lo scopo di interrompere il silenzio apatico della società contemporanea (Video III).

I suoi molteplici interessi, infatti, sono come delle finestre verso le quali il compositore porge lo sguardo sulla società e sull’individuo; la sua musica diventa musica nel momento in cui la si accetta come non-musica (Stefanija, 2001: 104). Lo stesso si potrebbe dire delle ultime opere di Petra Strahovnik, per esempio il già descritto progetto con l’Ensemble Modelo62.

Ma tornando alla musica e alle linee: la ricchezza sonora di Globokar è appoggiata ad una struttura semantica molto pronunciata. Il risultato sonoro induce l’ascoltatore a pensare alle corrispondenze tra linee in modo drammatico: l’energia cinetica non si annulla mai. La musica di Petra Strahovnik invece, sempre più libera dalle altezze e rapporti di tipo armonico, insiste sulla staticità, sull’energia femminile primordiale. Il tema dell’introspezione e (l’impossibile) serenità o liberazione (anananda) nella società presente si dispiega in lunghe linee statiche (Pompe, 2019b: 554-555). A differenza di Globokar, Strahovnik non cerca di affrontare, come testimoniato da I.N.D.I.G.O. (2009, Audio I), il contrasto o il dialogo tra individuo e collettivo, ma li mette sullo stesso piano. Da questo presupposto crea un pensiero musicale che si nutre della ricerca spirituale personale, un aspetto importante soprattutto perché si basa sulla convinzione che nella società moderna non sia più possibile raggiungere uno stato di beatitudine pura. All’individuo quindi non resta che immaginare e provare a ricreare la fine del samsara.  La ricerca spirituale è riportata nella forma musicale con vari elementi ripetitivi, senza evidenti apici.

Notiamo dunque come il suono e il tempo statico siano i punti cardine di questa indagine astratta e personale sulle possibilità di trovare la serenità. Sebbene l’invito all’ascoltatore a ricercare la pace interiore sia diretto, il linguaggio prende una strada più ampia. Dall’ascolto si deduce che la compositrice sia riuscita a creare delle strutture chiare e semplici che le permettono di esplorare pienamente gli oggetti sonori e la loro lenta trasformazione nel tempo. Essa si osserva anche nella pulsazione continua del pianoforte preparato con i magneti e nell’elettronica della composizione Amaranthine (2018, Audio II). L’effetto della campana nella lontananza ci ancora nello spazio, mentre il suono del pianoforte rimane snaturato e fragile. Il pezzo ci rimanda alla sonorità quasi scelsiana come anche ai battimenti tipici di De Natura Sonorum di Parmigiani. Inoltre è interessante osservare come l’eredità di Globokar, che si riconosce in alcune tecniche esecutive, sia messa in risalto nelle opere di Strahovnik. Sembra come se il materiale frammentato del pensiero postmodernista di Globokar si distenda nelle lunghe linee ripetitive di Strahovnik, avvicinando così la complessità della ricerca sonora all’ascoltatore. Ogni movimento breve sembra rallentato al fine di osservarne ogni microscopico dettaglio. Nella creazione di uno spazio sonoro utopico per gli individui e la società, la compositrice ci guida a cercare una concentrazione profonda per riuscire a percepire la musica come speranza (Ill. II).

Ill. II – Paul Klee, Bewegungen in Schleusen (1929).

LE INTERSEZIONI DELLE PERCEZIONI

Ill. III – Paul Klee, Blossoms and grains (1920).

La percezione di Prana (2018) per orchestra sinfonica di Strahovnik si concretizza nell’intreccio tra psiche, corpo e mente, come in un nodo. Il borbottio primordiale, l’eco dell’universo intero – questo è l’inizio della composizione con la quale la compositrice ha vinto il premio a Rostrum nell’anno 2019. La sovrapposizione di diversi strati sonori cattura l’ascoltatore a livello fisico, e da subito muove il subconscio smarrito tra varie possibili linee da seguire, creando così un viluppo. La sommatoria di questa energia creativa messa in atto, non solo quella generatrice dei suoni, ma anche quella che l’ascolto evoca, crea sul palco un vero campo magnetico. Facendo uso di forti magneti per preparare gli strumenti disposti in quattro parti del palco la compositrice crea un suono unico: l’ unicità nasce dall’intesa tra autrice ed esecutori già dalla fase gestazionale dell’opera, nella quale il musicista è una parte attiva del processo di ricerca delle soluzioni tecniche (immergere la campana dello strumento nell’acqua, preparare le corde con i magneti, soffiare direttamente nel corpo dello strumento, far suonare il polistirolo, cercare di creare delle interferenze, gorgheggiare).

Il prana come energia vitale prende forma tramite l’orchestra totalmente stravolta, aspetto che si percepisce anche dalla notazione. L’inaudito, il nuovo, prende forma anche attraverso i simboli: l’elemento dell’acqua nella quale sono immerse le campane dei legni rappresenta la trasformazione, l’aria riconduce al prana vitale, il gorgheggiare evoca una forma primordiale di comunicazione preverbale. Lo stato meditativo indotto dalla lenta trasformazione del materiale sonoro eleva simbolicamente lo stato di coscienza: “La via per uno sviluppo superiore passa attraverso l’acqua, con il pericolo di essere inghiottiti dal mostro” (Jung, 1999: 16). Questo rischio viene preso anche dalla compositrice, quando ella espone tutto il materiale sonoro sin dall’inizio; l’ascoltatore si ritrova ad orientarsi da solo verso suoni che si distendono e annodano tra loro. In qualche modo anche l’ascoltatore prende parte alla creazione del brano, scegliendo in ogni momento come orientare il proprio ascolto. Nessuno rimane passivo nonostante la musica porti ad uno stato meditativo (Video IV).

L’effetto dell’affollamento sonoro è molto presente anche nei lavori di Globokar. Kaleidoskop im Nebel (2012-2013) per orchestra da camera partendo subito con il mischiarsi di suono e parole, per poi procedere in una stratificazione che va addensandosi. Nell’ultima parte del brano, dove i musicisti sono disposti a cerchio sul palco, l’ascoltatore percepisce il suono come movimento circolare. La musica di Globokar richiede un’attiva immaginazione sia da parte del musicista che da parte del pubblico, il quale assiste a continue deformazioni e frammentazioni. Il crollo, il disfarsi del materiale, non è mai casuale, ma avviene in un’intersezione, come risultato di gesti precisi. I gesti in questo caso non dipendono solo dall’immaginazione del compositore, ma anche dall’immaginazione dello strumentista – nessuno dei ruoli rimane passivo (Video V). 

Al giorno d’oggi”, sostiene Globokar,“abbiamo già raggiunto il punto in cui non pensiamo più ai contrasti – veloce/lento; statico/movimentato; semplice/complesso – abbiamo anche una visione dialettica al materiale sonoro. Il prossimo passo è la comprensione della musica che mette sotto interrogazione tutte le capacità fisiche e psicologiche del compositore, interprete, senza scordarci dell’ascoltatore” (Globokar, 2002: 186).

È evidente che per Strahovnik il modo in cui usa la musica per mettere sotto questione la realtà stia sfuggendo alle definizioni estetiche. Ma com’è cambiata l’aria dal 1973 quando Globokar criticava i “venditori del vento” nella composizione Vendre le vent ? La nuova musica dell’epoca gli sembrava vuota, priva di ricerca, borghese, prodotta per accontentare il pubblico. Sia nella produzione che anche nella critica musicale egli vedeva  la svendita delle idee senza una vera valutazione critica né dalla parte delle istituzioni né dalla parte del pubblico. Da questa sua critica nasce il gesto di unire tutti gli strumenti a fiato presenti nell’esecuzione di Vendre le vent con un tubo e farli scendere, assemblati in questo modo, dal palco. La provocazione finale prevede che gli strumentisti suonino dietro le quinte fino al momento in cui l’ultimo ascoltatore lascia la sala. Da cos’è mosso il vento che muove la produzione musicale, le istituzioni, i critici oggi? L’aria che scorre dal compositore verso il musicista per raggiungere l’ascoltatore, riesce a muovere qualcosa? Come percepisce Globokar, dopo quasi 50 anni, la stessa aria che circola, l’aria senza ossigeno nelle tubature della logica di vendere tutto, anche il vento? 

Il vento che non è in vendita di Globokar sembra essersi intrecciato con l’aria mossa dalle idee di Petra Strahovnik. L’intersezione segna un punto di svolta: dalla musica di Globokar, che cerca di porre domande, ci si è messi in cammino  verso la musica di Strahovnik, che invece cerca risposte. Nell’ascoltatore, che segue l’allacciarsi delicato e instabile delle due correnti d’aria, si crea uno spazio nuovo, un rifugio al quale si giunge solo dopo un indispensabile procedimento – un processo che non è in vendita.

BIBLIOGRAFIA

Bloch, Ernst. Spirito dell’Utopia. A cura di Francesco Cappellotti. Milano: BUR, 2010.

Jung, Carl Gustav. Shamdasani (Ed.). The Psychology of Kundalini Yoga. Notes of the seminar given in 1932 by C.G. Jung. Princeton: Princeton University Press. 1996

Globokar, Vinko. Laboratorium. Ljubljana: Slovenska matica. 2002

Ingold, Tim. The life of lines. Abingdon: Routledge. 2015

Klee, Paul. Notebooks, volume 1: the thinking eye. New York: G. Wittenborn. 1961

Klee, Paul. Notebooks, volume 2: the nature of nature. London: Lund Humphries. 1973

Pompe, Gregor. Skice za zgodovino slovenske glasbe 20. stoletja. Ljubljana: Znanstvena založba Filozofske fakultete. 2019a

Pompe, Gregor. Glasba na Slovenskem med letoma 1918 in 2018. Ljubljana: Znanstvena založba Filozofske fakultete in Založba ZRC. 2019b

Stefanija, Leon. O glasbeno novem. Ob slovenski instrumentalni glasbei zadnje četrtine 20. stoletja.Ljubljana: Študentska založba, 2001

Schmitt-Weidmann, Karolin: Der Körper als vermittler zwischen Musik und (All)Täglicher Lebenswelt.Bielefeld: transcribt Verlag. 2021

Ingrid Mačus
Ingrid Mačus

(1989, Šempeter pri Gorici, Slovenia), compositrice e pianista. Ha iniziato i suoi studi di pianoforte presso l’Accademia di musica di Lubiana dove ha conseguito la laurea. Allo stesso tempo si è laureata in Musicologia presso la Facoltà di Lettere di Lubiana. Attualmente prosegue con gli studi di composizione. Si interessa della musica nei contesti multimediali; in collaborazione con poeti esplora lo spazio tra suono e parole e scrive colonne sonore per il cinema. Lavora come insegnante di pianoforte e pianista accompagnatrice. Scrive inoltre articoli sulla musica nelle riviste di musica classica slovene. Ha collaborato come musicologa con la radio nazionale slovena, ARS.

e-mail: ingridmacus@gmail.com

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