IL TRATTATO DELLA NON-MENTE: L’EMPIRISMO TRASCENDENTALE DEL BUDDHISMO CHÁN

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Muqi, Sei Cachi,
inchiostro su carta,
XIII secolo, Kyoto.

Ill. I – Muqi, Sei cachi, inchiostro su carta, XIII secolo, Kyoto.
Ill. II – Jean-Baptiste Simeon Chardin. Glass of water and coffee pot, olio su canovaccio, 1760, Carnegie Museum of Art, USA.
Ill. III – Giorgio Morandi. Teiera, acquarello, anni ’50, Museo di Arte Moderna, Bologna.

Il Buddha Dharma, cioè il Buddhismo, giunge in Cina dall’India intorno alla prima metà del VI secolo, grazie al viaggio del primo patriarca dello Zen, Bodhidharma.  Da lui si sviluppa un lignaggio che si tramanda per sei generazioni, fino alla crisi dottrinale del sesto patriarca, il rinnovatore Huìnéng. Da lui si svilupperà la più fortunata delle scuole Chán, la scuola meridionale, da cui avranno origine la scuola Linji, da cui avrà origine il Rinzai giapponese, la scuola zen dei koan del grande monaco filosofo e divulgatore Suzuki Daisetsu, e la scuola Sōtō, la scuola della meditazione di fronte al muro e della centralità dello zazen, la scuola di Dōgen Zenji, forse la più conosciuta in Occidente.

Il recente lavoro di traduzione e curatela di Aldo Tollini, pubblicato per i tipi di Astrolabio-Ubaldini, Alla ricerca della mente. Testi del buddhismo chán cinese in epoca Tang (2021), consente un importante approfondimento dei testi cinesi Chán, i quali mostrano, lungi dal marcato anti-intellettualismo nipponico tipico della scuola Sōtō, un grande interesse per la ricerca filosofica. Nello specifico Tollini si sofferma sul quarto patriarca, Dàoxìn, il cui allievo, Faróng, fonderà la setta estinta della Testa di bue. Tollini scrive che « l’insegnamento del quarto patriarca Dàoxìn […] si basava sia sullo studio dei testi sia sulla pratica della meditazione » e che « studio e pratica dovevano sempre andare insieme come formazione del praticante ideale » (Tollini, 2021: 48). Attribuito allo stesso Bodhidharma per tradizione, è invece probabilmente proprio nell’ambito della scuola dell’allievo di Dàoxìn che è stato composto il Trattato della non-mente (Wúxīnlùn).

Attraverso la lettura dei più importanti nodi tematici del testo, si cercherà di darne una lettura del tutto particolare, avvicinando il testo cinese alla tradizione dell’empirismo trascendentale. Faccio riferimento alla tradizione dell’empirismo radicale, ossia il ‘canone minore’ di cui scrive Rocco Ronchi ormai da qualche anno, in riferimento soprattutto ai due libri “gemelli” Come fare? Per una resistenza filosofica (2011) e, soprattutto, Il canone minore. Verso una filosofia della natura (2017) e mi riferisco, nello specifico, a una sotto-categoria dell’empirismo radicale, inteso come prospettiva più ampia, comprendente autori come Bergson, James, Whitehead, Deleuze, cioè alla proposta che Gilles Deleuze espone in Immanence: une vie (1995) facendo riferimento al saggio giovanile La transcendence de l’Ego. Esquisse d’une description phénomenologique (1936) di Jean-Paul Sartre.

Secondo Deleuze la filosofia trascendentale avrebbe subito un « completo snaturamento », tale per cui il ‘trascendentale’ sarebbe stato « ridotto soltanto a duplicare l’empirico (così in Kant), e a una deformazione dell’immanenza che si ritrova in tal modo contenuta nel trascendente» (Deleuze, 1995: 9). La proposta di Deleuze è l’empirismo trascendentale. Questa prospettiva filosofica si concentra sui « dati immediati », descritti nella loro « spontaneità mostruosa » (Sartre, 1936: 91) come « pura corrente di coscienza a-soggettiva, coscienza pre-riflessiva impersonale. Durata qualitativa della coscienza senza io » (Ibidem); l’empirismo trascendentale intende questi dati immediati, questo « immediato flusso della vita », « processo che fluisce » (James, 1910: 51) come il trascendentale. L’esperienza è trascendentale.

L’esperienza intesa né come Erfahrung, né come Erlebnis, bensì come campo trascendentale. Essa è il costituirsi stesso della realtà, intesa come immanenza pura. L’immanenza è intesa come il piano della produzione della trascendenza, produzione spontanea, assoluta creatività in atto. Deleuze riprende la nozione di ‘piano di immanenza’ di cui aveva scritto pochi anni prima insieme a Félix Guattari in Che cos’è filosofia? (1991). L’immanenza, l’esperienza trascendentale, « non si riferisce […] a un Soggetto come atto che opera la sintesi delle cose » (Deleuze, 1995: 9). « Il mondo non ha creato il Me, il Me non ha creato il Mondo; il Mondo e il Me sono due oggetti per la coscienza assoluta impersonale ed è grazie ad essa che essi si trovano connessi. Questa coscienza assoluta, quando è purificata dall’Io, non ha più niente di un soggetto, non è nemmeno una collezione di rappresentazioni: è semplicemente una condizione prima ed una sorgente assoluta di esistenza » (Sartre, 1936: 98). L’esperienza pura, coscienza assoluta, piano di immanenza pura è condizione di ogni trascendenza. Essa è cioè trascendentale.

Leggendo uno dei testi fondamentali del Chán cinese contenuti nel volume curato e tradotto da Tollini, il Trattato della non-mente (無心論/Wúxīnlún), emerge una vicinanza speculativa profonda con l’empirismo trascendentale. È possibile considerare il contenuto di questo testo il distillato filosofico di una forma di empirismo trascendentale?

Fin dalle prime parole del testo si trova un importante ammonimento: è possibile vedere la forma del senza-forma. Se, da un lato, la Grande Via (大道/Dadao) « non ha nessun aspetto » è però possibile, « venendo a contatto col misterioso », vedere la forma del senza-forma. Fondamentale è aver ben chiaro che, secondo il Buddhismo Chán, è possibile contattare il ‘misterioso’. Inizia poi un vero e proprio dialogo tra maestro e discepolo.

Il discepolo domanda al suo maestro se la mente (心/Xīn) esiste oppure no. La risposta del maestro è «無心/Wú-Xīn» che Tollini traduce: « la non-mente ». Bisogna avere ben chiaro che qui, la domanda del discepolo sulla natura di 心  è l’occasione per discutere della vera realtà, della realtà assoluta, cioè della natura di Buddha (佛性/Fú-Shìn). 佛性/Fú-Shìn è 無心/Wú-Xīn. La vera realtà, quella che è possibile contattare, che, cioè, è possibile toccare e a cui è possibile attingere per raggiungere la conoscenza perfettamente compiuta (Prajñāpāramitā), è non-mente. Lungi dall’essere una questione psicologistica il tema qui è fondamentalmente ontologico.

Alla successiva e più che legittima domanda del discepolo « chi conosce la 無心? », il maestro risponde che la non-mente è ciò che « proprio perché è non-mente: si vede, si ode, si percepisce e conosce ». 無心 è ciò che, in quanto è 無, cioè è NON-mente, allora, proprio perché non è mente, rende possibile vedere, udire, conoscere. 無心 costituisce cioè un principio trascendentale rispetto al conoscere in generale ed è trascendentale proprio in quanto fonda e si distingue per natura da ciò che rende possibile costitutivamente. Si vede, si ode, si conosce proprio in quanto è 無心. Ma poi questa forma di trascendentalismo si dimostra nella sua ambigua empiricità: il principio trascendentale non è altro dall’effetto del suo essere trascendentale. Non esiste, cioè, condizione di possibilità che non sia attualmente effettuata, non esiste facoltà che non sia costantemente in esercizio. Cito il passo intero per maggiore chiarezza: 

«Proprio questo vedere, udire, percepire e conoscere è la non-mente. Dove mai può esistere una non-mente che non sia vedere, udire, percepire e conoscere? Sono preoccupato del fatto che tu non capisci. Spiegherò per te affinché tu comprenda il vero Principio. Per esempio, il ‘vedere’: si vede per tutto il giorno ma senza vedere, [quindi] vedere è non-mente. […] Il ‘percepire’: si percepisce per tutto il giorno ma senza percepire, [quindi] percepire è non-mente […] si conosce per tutto il giorno ma senza conoscere, [quindi] conoscere è non-mente. Tutto il giorno ci si dà da fare, ma è un fare senza fare,  […] fare è anch’esso non-mente. Quindi si dice che vedere, udire, percepire, conoscere sono tutti non-mente ». (Wúxīnlún, p. 119)

Il principio trascendentale della 無心 è lo stesso vedere, è lo stesso percepire, è lo stesso conoscere, è lo stesso fare.  Quando vedo io vedo perché dimentico il vedere. Il mio vedere è veramente efficace se l’atto di vedere non si vede vedere. Io vedo perché il mio occhio non si può vedere. Questa macchia scura sul fondo del vedere è, cioè, la non-mente che causa il vedere. Un’espressione che può aiutare a comprendere questo punto è il nishidiano « vedere-senza-vedente ». Nishida Kitarō (1870-1945) sin dalla sua prima opera scrive che alla base della realtà sta un’intuizione intellettuale la quale è definita « vedere direttamente la realtà » e cioè essere nell’« esperienza immediata » dove « non c’è distinzione tra soggetto e oggetto e ci si trova faccia a faccia con la realtà » (Nishida, 1911: 50). Già in un saggio su Bergson, pubblicato pochi anni dopo, tratteggerà l’intuizione in modo ancora più radicale; l’intuizione è l’atto che « vede diventando la cosa » (Nishida, 1914: 120). Nel saggio della maturità Luogo del 1926, scriverà che tale intuizione, intesa come un risveglio del sé nel sé, è da intendere come l’atto del rispecchiare, cioè del «lasciare che si costituiscano le forme delle cose così come sono senza deformarle, […] accoglierle così come sono » (Nishida, 1926: 46).

無心 è, cioè, un’intuizione la quale è in primis un’attività, un « vero atto puro », che « non è ciò che agisce » bensì « deve essere ciò che contiene in sé l’agire » (Nishida, 1926: 41). Tale azione, cioè, non è un’azione che si distingue da ciò su cui agisce. Tale attività è in sé sia soggetto che oggetto dell’azione. Essa è cioè intesa come la praxis aristotelica, come l’attività che ha il fine nel suo stesso esercizio. « […] nelle praxeis il synastai (il potere, l’essere capace) non significa dynamin echein (avere la capacità, potere-di-non) come nel poiein (produrre), ma coincide con l’energhein (l’agire) » (Ronchi, 2017: p. 224). La conclusione di questa raffinata analisi aristotelica porta Ronchi a sancire che « l’essere è la stessa attività ». Analogamente, Nishida scrive che « primo non è l’essere potenziale, ma l’essere reale ». Dalla posizione di 無心 è possibile « vedere l’oggetto senza contrapposizione in cui forma e materia si fondono ». Sia ben chiaro che, nell’atto del 無心 l’oggetto visto non è altro dal soggetto; cioè il visto è il vedente, cioè l’attività del vedere che vede se stessa.

Possibile intendere la posizione del 無心 come « impressione cieca » (Ronchi, 2017, p.138). Ronchi ne parla a proposito dell’intenzionalità della coscienza. Il fondamento, l’acqua in cui bagna, per utilizzare una sua espressione, l’attività rappresentativa e volitiva della coscienza è l’intuizione intellettuale intesa come « autoaffezione senza estasi » (Ibidem.) Anche così è possibile intendere il « vedere senza vedente » di Nishida. Un vedere, cioè, tutto infuso in se stesso, perfettamente aderente a sé, un puro vedere. Izutsu Toshihiko definisce la 無心 come « massimo grado di tensione », si potrebbe dire come ‘pura intenzionalità’, laddove, però, la tensione è talmente alta da collassare su se stessa. La mente cioè si sorvola a una velocità assoluta, utilizzando la celebre espressione ruyeriana. « La parola ‘non-mente’ […] si riferisce precisamente al puro atto del VEDERE nello stato di una realizzazione immediata e diretta […].» (Izutsu, 1977: 30). Sempre Ronchi, discutendo della dépense batailliana e della pulsione di morte, al di là del principio del piacere, freudiana, parla di « godimento assoluto » (Ronchi, 2012). Il principio trascendentale del 無心 è dunque l’esperienza stessa. Essa, purificata da ogni ego a essa inevitabilmente esteriore, trascendente, costituisce il piano di immanenza pura, il punto di vista della non-mente, la prospettiva del vuoto, del tathatā, cioè dell’ecceità, della séità del reale. Laddove è 無心 c’è 佛性, natura di Buddha, e laddove c’è 佛性 c’è la realtà così com’è, assoluta, sciolta da qualsiasi attaccamento. 

Cessata ogni sete di sostanza, cioè di permanenza, di risultanza dal processo infinito che è il mondo (Nishida, 1945), cessata ogni velleitaria volontà di potenza egoistica sul mondo, cessata ogni ipotesi poietica, si annega nella praxis, nell’esercizio mostruoso della non-mente, nell’infinito dell’impermanenza (無常 /Wu Chang/Anitya). Una mente purificata, cioè una 無心, non produrrà più il cortocircuito della rappresentazione, della separazione tra soggetto e oggetto, non causerà quegli effetti karmici che appesantiscono il bagaglio di sofferenza e che implicherà una rinascita nel Samsāra. « Gli esseri senzienti sono nell’illusione e nella confusione e [concepiscono] una mente confusa dentro la non-mente. Producono azioni che causano effetti karmici con attaccamenti illusori che causano [l’impressione] dell’esistenza [della mente]» (Wúxīnlún, 120).

Fermare ogni attività karmica, riposare la mente su se stessa, essendo ciò che diviene, diventando ciò che si è. La realtà assoluta « senza alcuna intenzionalità è attivamente presente ». Di nuovo la 無心 assume una connotazione fortemente megarica: essa è ciò che non può che esercitarsi. L’essere reale in atto. Tale realtà è tathatā, ecceità, che, in quanto è attività in atto, è perfettamente immobile. Su questo punto occorre essere precisi. « L’energhein [cioè l’attività del 無心] non è kinesis » (Ronchi, 2021: 160). L’energhein, cioè, non si muove, se non dal punto di vista della mente offuscata; cioè la realtà si muove solo se si « articola il processo riferendolo a un soggetto sostrato, facendone un predicato, orientandolo verso un ergon nel quale potrà dirsi compiuto » (Ibidem).

Non c’è, cioè, alcuna coscienza-sostrato come supporto della realtà: la realtà è 無心. La coscienza assoluta è la realtà assoluta. In quanto assoluta è completamente al di là di ogni distinzione tra soggetto e oggetto. Come aveva scritto James prima di Deleuze e Ronchi: « [esiste] soltanto una materia primigenia […] una materia di cui tutto è composto e che chiamo “esperienza pura” » e tale esperienza « soltanto virtualmente […] è ancora sia oggetto che soggetto. Per ora è attualità o esistenza semplice, non qualificata, un puro questo » (James, 1912: 10-19).

Ma l’elemento megarico dell’energhein senza ergon, della praxis che ha scopo solo nel suo esercizio può illuminare su quelle che alcuni potrebbero pensare essere stranezze orientali. Se, infatti, è vero che i buddha, risvegliati alla 無心, , si dice comunemente che abbiano raggiunto l’illuminazione, va però ricordato che questo modo di spiegare l’evento dell’illuminazione è, per così dire, un modo ‘essoterico’, cioè un modo per renderlo accessibile ai più. Ma dal punto di vista di 無心, non c’è reale ottenimento, non c’è ergon, poiché « se si ottiene la non-mente, non c’è modo di ottenere né le passioni né l’illuminazione. E così anche vita-e-morte e il nirvāna non sono ottenibili » (Wúxīnlún, 121). L’immanenza pura del 無心 non consente ottenimento, non consente kinesis, non consente nascita e non consente morte. La realtà è un processo di eterna metamorfosi in atto. Non c’è realtà che non sia metamorfosi, non c’è essere che non sia divenire. 無心, in fondo, non è altro che l’impermanenza, la realtà intesa nella sua più profonda radicalità come essere-in-atto, in quanto tale impermanente, diveniente, cioè eterno. Attività-eppure-essere, divenire-eppure-eternità. Μεταβάλλων αναπαύεται.

BIBLIOGRAFIA

Deleuze, Gilles. « Immanence: une vie… ». Philosophie, n°47 (1995): 3-7 [trad. it. F. Polidori, « L’immanenza una vita… », Aut-Aut (1996): 4-7].

Deleuze, Gilles e Félix Guattari. Qu’est-ce que la philosophie?. Paris: Les éditions de Minuit, 1991 [trad. it. Arcuri C. (a cura di) Che cos’è la filosofia?. Torino: Einaudi, Torino, 2002].

Izutsu, Toshihiko. Toward a philosophy of Zen Buddhism, Imperial Iranian Academy of  Philosophy, 1977 [trad. it di P. Nicoli, La filosofia del Buddhismo Zen. Roma: Ubaldini Editore, 1984].

James, William. Essays in Radical Empiricism, New York, 1912 [trad. it. Dazzi N, Pizzighella, L. e Luca Taddio, Saggi sull’empirismo radicale, Milano-Udine: Edizioni Mimesis, 2009].

Nishida, Kitarō. Zen no kenkyū (1911), in Nishida Kitarō Zenshu, vol. I, tomo I [trad. it di E. Fongaro, Uno studio sul bene, Milano-Udine: Mimesis Edizioni, 2017].

Nishida, Kitarō. Shisaku to taiken (1914), in Nishida Kitarō Zenshu, vol. I, tomo II [trad. it, di E. Fongaro, Pensiero ed Esperienza vissuta corporea. Milano-Udine: Edizioni Mimesis, 2019].

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Ronchi, Rocco. Come fare. Per una resistenza filosofica. Milano: Feltrinelli, 2012.

Ronchi, Rocco. Il canone minore. Verso una filosofia della natura. Milano: Feltrinelli, 2017.

Ronchi, Rocco. Megarici, in Aa.Vv., Nova Theoretica. Manifesto per una nuova filosofia (Roma: Castelvecchi, 2021), pp. 156-166.

Tollini, Aldo. Alla ricerca della mente. Testi del buddhismo chán cinese di epoca Tang. Roma: Ubaldini Editore, 2021.

Francesco Cristofori
Francesco Cristofori

Francesco Cristofori – Classe 1993, dopo la maturità classica a Modena, ha studiato Scienze della Cultura presso l’Università di Modena e Reggio Emilia dove si è laureato con una tesi sul rapporto tra queer theory e pensiero della differenza sessuale. Ha proseguito gli studi in Filosofia presso l’ateneo di Parma approfondendo i suoi interessi eminentemente teoretici e di filosofia interculturale laureandosi con una tesi sull’empirismo radicale del filosofo giapponese Nishida Kitarō.

Lavora soprattutto sulla filosofia giapponese dei primi del Novecento, la Scuola di Kyōto, il Buddhismo Zen, il pensiero di Henri Bergson e Gilles Deleuze.

e-mail: francescocristofori93@gmail.com

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