Ferrari, Federico. Il silenzio dell’arte. Roma: Luca Sossella Editore, 2021


Il silenzio dell’arte, volume dato alle stampe per i tipi di Luca Sossella Editore, è permeato al contempo di pudore e di vigore. Se, infatti, la domanda circa il senso dell’arte è posta, di pagina in pagina, con urgenza e asprezza, sospingendo in tal modo il lettore a cercarvi una risposta – è al contrario con una certa cautela che Ferrari evita di tracciare una netta definizione dell’essenza dell’arte. Egli ne accarezza i confini, sostandovi, quasi a constatare che l’attuale contesto – “il re è nudo” – derivi dalla precipitosità con la quale critici e curatori – i bersagli del pamphlet di Ferrari – hanno deliberato su quale ne sia il senso. Ma qual è “l’attuale contesto”? La serie di “omogeneizzati delle trasgressioni”, come dice l’Arbasino citato da Ferrari, che caratterizza il nostro presente.
Il primo dei due testi, Lo spazio critico (Ferrari, 2021, pp. 13-109), attraversala tensione tra Kultwert e Austellungwert, o piuttosto il passaggio di consegne che avviene già ormai dagli anni ’80, tra il museo come contenitore di una qualche forma di trascendenza e il museo come “supermercato del visibile”, come accozzaglia di materiali alla ricerca di un’originalità perduta. Prima ancora, come ricostruisce Ferrari, il museo era nato come laboratorio di ricerca e, infine, come evocatore immaginifico di altri mondi. Ebbene, se ripensiamo alla Wunderkammer kircheriana – ma anche, molto più modernamente, ad un’istituzione che del giudizio estetico ha fatto il centro del suo funzionamento, come il Centro Georges Pompidou – e ne compariamo le spoglie con quelle delle esposizioni e dei musei di arte contemporanea che sorgono in tutto il mondo, lo spettacolo è desolante. Di “spettacolo”, d’altronde, è questione quando si entra in questi luoghi: non è contemplata la possibilità – né la necessità – che il pubblico si senta coinvolto in ciò che gli si pone di fronte. Egli vi assiste come spettatore, trasformando la fenomenologia dell’esperienza artistica in un ricettacolo di impressioni incise sulla retina. Come se lo spazio non si situasse in una relazione chiasmatica con lo sguardo, come se lo spazio non “pensasse” lo sguardo – e qui Ferrari sembra avvicinarsi alle riflessioni del Lyotard di Discours, figure.
Il modo in cui si deve ripensare l’arte, o meglio di come si debba ripensare la relazione tra pubblico e opera d’arte è forse simile a quello che Christophe Leboucher applica per pescare: essendo cieco, egli si avventura a tentoni, quando la marea è bassa, affidandosi dunque semplicemente al tatto. Dimenticando la vista. Dimentichiamo, dice Ferrari, come abbiamo visto le opere fino ad ora, seguendo la progressione storica – seguendo cioè un sussurrato codice che ne impone la linearità. Al vero critico – che non vuole istruire il pubblico, ma vuole creare un pubblico – bastano tre opere per far risuonare il valore dell’opera d’arte, per costruire un percorso che ne mostri le insanabili contraddizioni. Anche del concetto di “risuonare” è questione in questo testo. Già inizialmente Ferrari fa irrompere (Adorno) nel testo delle voci (Damisch, Clair, Bachmann, Bredekamp, ecc.) che mutano il discorso in polifonia, per poi giungere al momento in cui l’autore stesso si fa da parte (muore, direbbe il Blanchot al quale Lo spazio critico è ispirato) trascrivendo le parole dei suoi colleghi Paolini, Parmiggiani, Cladders, Krauss, Nicolao, Obrist, Szeemann. Sembra essere questa l’unica via d’uscita.
Il secondo testo (Ferrari, 2021, pp. 111-161), Il re è nudo, a sua volta frammentato in più interventi, succede anche cronologicamente al primo. Possiede, perciò, un tono più caustico e severo. Gli ultimi due capitoli ruotano attorno alla questione del popolo, o della popolarità dell’arte. Se l’arte novecentesca ha voluto una democratizzazione di sé, questo non deve indurci a confondere il piano politico da quello estetico, per Ferrari. Insomma, non si deve prendere il popolo al quale si rivolge(va) l’arte, al quale ella voleva finalmente interessare, come pretesto per giustificare il depotenziamento che subisce attualmente ogni procedura artistica. Che non ci ingannino le lunghe file di fronte alle esposizioni, il numero di visitatori che aumentano con grande orgoglio dei Direttori Istituzionali. L’evoluzione – o la regressione – del sistema museale va di pari passo all’evoluzione del mercato dell’arte, che si plasma ora su bolle speculative – dello stesso tipo di quelle che hanno provocato la crisi finanziaria. E mentre questi meccanismi continuano a funzionare al riparo dello sguardo pubblico, mentre il mercato dell’arte assume dimensioni grottesche, il pubblico viene imboccato con opere “deboli”, immediate, che accontentano il suo bisogno di assoluzione, di assolvere il compito di “visitare un luogo culturale” – come d’altronde molti di noi fanno, quando visitano una nuova città. Si dilania così lo iato tra i due mondi. Ma l’arte è per “i migliori”, per l’aristocrazia, dice Ferrari con un coraggio e, forse, con un’“ingenuità” assolutamente inattuali. E proprio quando il lettore vuole chiedere forsennatamente “Chi sono i migliori? Se non è con la formazione che essi si distinguono, come possono i migliori divenire tali? E, infine, cos’è l’arte?”, proprio in questo momento il libro si interrompe, la pagina esplode. Non ci resta che avere a che fare con il reale.
