LE VITE VOTATE ALLA MUSICA COME CULTURA


T. 1
Quae ubi poeticas Musas vidit nostro asisstentes toro fletibusque meis verba dictantes, commota paulisper ac torvis inflammata luminibus: Quis, inquit, has scenicas meretriculas ad hunc aegrum permisit accedere, quae dolores eius non modo nullis remediis foverent, verum dulcibus insuper alerent venenis? Hae sunt enim, quae infructuosis affectuum spinis uberem fructibus rationis segetem necant hominumque mentes assuefaciunt morbo, non liberant. At si quem profanum, uti vulgo solitum vobis, blanditiae vestrae detraherent, minus moleste ferendum putarem – nihil quippe in eo nostrae operae laederentur –, hunc vero Eleaticis atque Academicis studiis innutritum? Sed abite potius, Sirenes usque in exitium dulces, meisque eum Musis curandum sanandumque relinquite.
Severino Boezio, La consolazione della filosofia (Milano: BUR, 2005 (1977)1), Liber I, I, p. 72.
T. 2
3. His igitur, si pro se tecum Fortuna loquerentur, quid profecto contra hisceres, non haberes; aut, si quid est, quo querelam tuam iure tuearis, proferas oportet: dabimus dicendi locum.
Tum ego: Speciosa quidem ista sunt, inquam, oblitaque rhetoricae ac musicae melle dulcedinis tum tantum, cum audiuntur, oblectant, sed miseris malorum altior sensus est; itaque cum haec auribus insonare desierint, insitus maeror praegravat animum.
Et illa: Ita est, inquit; haec enim nondum morbi tui remedia, sed adhuc contumacis adversum curationem doloris fomenta quaedam sunt; nam quae in profundum sese penetrent, cum tempestivum fuerit, ammovebo.
Boezio, La consolazione della filosofia, Liber I, II, p. 130.



Bios Mousikos – come si è già ricordato nel Manifesto, il lemma greco mousikè esprime in sé l’inscindibile nesso tra musica come espressione artistica determinata e il senso di civiltà, cultura o civilizzazione in generale. Pertanto, bios mousikos allude – se si mantiene tale ambiguità – a una vita, si potrebbe dire, interamente votata alla musica come cultura, ma anche alla cultura come musica.
E si ritorna inevitabilmente sempre alle Muse, che si trovano nella storia del pensiero – non si fa qui distinzione disciplinare – in una posizione di soglia: al contempo sorgenti di ispirazione e in certo qual modo condensazioni immaginarie distraenti la mente (o lo spirito) dalla contemplazione della verità. Così si rivelano esse stesse un archetipo della funzione farmacologica di ciò di cui sono il simbolo: dalla poesia alla retorica e l’eloquenza fino alla musica e la poesia lirica con Euterpe (Ill. I).
I versi che aprono il primo libro de la Consolatio Philosophiae di Severino Boezio (475-425 d.C.) sono in questo senso sintomatici:
Io che un tempo, con giovanile entusiasmo,
composi canzoni, sono ora costretto, ahimé,
a intonar in pianto meste nenie.
Ecco: le Muse, lacere, mi suggeriscon le cose
da scrivere e i versi elegiaci mi fan scorrere
calde lacrime sul volto.
Ma le Muse, almeno, da nessun timore
si lasciaron distogliere dal seguirmi,
fedeli compagne, nel mio cammino.
Esse che furon un tempo gloria dei miei verdi anni
fortunati, alleviano ora le mie disgrazie
di vecchio infelice.
[…]
Mentre con beni fugaci mi allettava l’infida fortuna,
già un destino doloroso si preparava
a sommergere la mia vita;
ed or che esso, rabbuiatosi, ha mostrato
il suo volto fallace, si prolunga con ingrati
indugi la vita vuota di speranze.
(Boezio, 2005, pp. 69-71)
Le Muse da gloria dei “verdi anni” sorretti dalla Fortuna diventano vettori di solor, solatum est, solari (del consolare) le “disgrazie di vecchio infelice“: della Consolatio. E quindi quale differenza sussiste tra la consolatio philosophiae e la consolatio musarum? Pascal Quignard osserva in merito quanto il “verbo romano solor distoglie ciò che ossessiona. Esso allevia ciò che pesa nel fondo del cuore d’un umano e addolcisce l’acre che ivi si corrompe. Esso assopisce ciò che è dolorosamente all’erta e che senza cesure minaccia di levarsi, di ergersi nel panico angosciato e febbrile” (Quignard, 1996, pp. 15-16).
In effetti, è alla luce della funzione della Fortuna (Ill. II) che si coglie la differenza – secondo Boezio – tra l’economia della farmacologia filosofica e quella delle Muse. Il “volto fallace“, ambiguo e bifronte, della Fortuna che nasconde l’infernale macchina di “beni fugaci” prolungando così “con ingrati indugi la vita vuota di speranze” (anche Boezio, op. cit., pp. 129-131). Mentre la Musa poetica suggerisce versi per lenire il pianto di Boezio, la Donna-filosofia appare con scettro e libri additando le Muse stesse quali “meretrici” (meretriculas): incapaci di fornire alcun vero rimedio ed anzi atte a stimolare il malessere stesso con i loro dolci veleni (verum dulcibus insuper alerent venenis). La forma passiva di solor esprime la circolarità chiusa di ogni gesto consolatorio, che non fa che immettere nel circolo immaginario-simbolico una materia traumatica che come tale non viene mai definitivamente sciolta o tolta nel senso del aufheben hegeliano. Così la colpa delle Muse sarebbe di indurre il malato ad indugiare in infruttuosi affetti (infructuosis affectuum).
Dunque, quale sarebbe la proposta filosofica? L’oltrepassare, il togliere (tollere), nel senso di sollevare la malattia o il malato dalla sua stasi. La Donna-filosofia chiama le Muse Sirene in exitium dulces: “rovinosamente incantevoli” (T. 1). Con Artin Bassiri Tabrizi, si può pertanto ben definire tale stasi o indugiare come “stadio delle sirene“, dove l’intervento della Donna-filosofia incarna un momento della storia occidentale che può leggersi nella sua totalità come “un percorso verso la defascinazione“.
Eppure, la proposta filosofica qui evocata non è altro che un’altra tecnica-arte della consolazione, come d’altronde acutamente chiosa Quignard, “la philosophia è stata forse mai una cosa molto più ardita di questo solor dell’anima?” (Quignard, op. cit., pp. 16-17). Il dramma della Consolatio si apre di fatto con una con-correnza, nel senso del concorrere allo stesso fine, fra figure femminili per il matriarcato (l’Anima junghiana) che regge la vita interiore – o l’individuazione psichica e collettiva – dell’umanità. A questo punto, si tratta di accennare al senso e al nesso inscindibile che sussiste fra mousikè e il processo di defascinazione. Quignard ancora suggerisce il nesso fra mousikè et pavor (terrore panico), dove la prima è una sorta di linge (biancheria), inequivocabilmente intima, se essa sutura-cura (panse) “una piaga che si espone, è ciò che dissimula una nudità che imbarazza“: ciò che avvolge l’infante fuoriuscendo dalla notte materna (Quignard, op. cit., p. 15); al contrario, il pavor è la soglia stessa di tale fuori-uscire.
La fascinazione allude pertanto al prolungare quella notte fuori dalla quale vi è la stasi del panico, se non intervenisse il taglio patriarcale del simbolico, rimuovendo il fondo psicologico matriarcale e costituendo in tal modo la categoria della alterità, che “si vive al livello del corpo e del cosciente“. In altri termini, la Donna-filosofia incarna la donna pre-formata dall’animus patriarcale, che – spiega Denyse Lyard – ne è lo strato più superficiale “riflesso di una cultura patriarcale entro la quale è immersa la donna occidentale e che a sua insaputa le hanno inculcato padre, fratello, zio, professore e marito. Mondo del logos e della morale, costituisce infatti ciò che è abitualmente descritto come animus”. Se al contempo è necessario il taglio simbolico patriarcale affinché possa darsi il processo di individuazione psichica e collettiva, l’inaridirsi dell’io alla coscienza astratta da tale fondo psichico (l’inconscio) ne pregiudica qualsiasi ulteriore determinazione. Le immagini archetipe del taglio simbolico patriarcale sono quelle del Vecchio o del Saggio (Lyard, 1992, pp. 22-31).
Severino Boezio non era appunto nella sua tarda età, quasi come dissecato dal fondo dei suoi “verdi anni”? Ma altra figura storica si erge ad immagine di Saggio, Socrate, che Nietzsche identifica già dalla Geburt quale archetipo (Urbild) dell’ottimista teorico, ma in verità dell’uomo teorico in generale, per il quale “nell’errore risiederebbe il male stesso” (im Irrtum das Uebel an sich) vedendo quindi nella conoscenza rappresentativa, ridotta al “meccanismo dei concetti, giudizi e conclusioni” (Mechanismus der Begriffe, Urtheile und Schlüsse), “la forza di una medicina universale” (die Kraft einer Universalmedizin) (Nietzsche, 1967-, vol. I, p. 100). Cosa propone la Donna-filosofia se non la panacea di una medicina universale? Come Socrate, essa offre a Boezio una cura che estirperebbe definitivamente il dolore in profondum alla differenza del temporale e caduco placebo seducente dell’auribus insonare – del risuonare nell’orecchio (T. 2) – che svanisce, terminata la penetrazione auricolare, lasciando evaporare l’avvolgente biancheria musicale.
Come spiega efficacemente Bassiri Tabrizi, le Sirene (Ill. III) cantano quel canto nel quale il viandante è (pre)disposto a immergersi: disperdere nuovamente il proprio io nel loro nudo corpo fatto di puro Canto, poiché esso ci canta. Nonostante l’associazione classica tra il canto delle sirene e il morire, si tratta piuttosto di considerare che “l’atto delle sirene è un richiamare l’animo all’intonazione, un accordarsi inconscio che non è possibile evitare poiché si tratta di un solco preesistente, un cammino percorribile perché già percorso in precedenza“. Dunque, l’indifesa esposizione del senso dell’udito all’altro non è che la traccia ineliminabile del fondo psichico preindividuale (Simondon).
Certo, la nota censura della musica (e delle figure femminili) nel contesto del Simposio platonico, al fine della buona condotta della discussione filosofica, che irrompe coll’arrivo di Alcibiade (212c-e), nelle forme della flautista e delle danzatrici, sovvertendo la prassi del convivio, potrebbe corroborare l’interpretazione classica. Eppure, Socrate si fa ventriloquo delle parole di una Donna-Sirena, Diotima, sacerdotessa di Mantinea, il cui discorso certo non può ridursi alla proposizione unilaterale della Donna-filosofia di Boezio (201d ss.). L’idea del Bello si coglie non negando il suo darsi estesico, ma al contrario attraversandolo.
Quale Sirena incantò invece il Socrate morente (Ill. IV), di cui si fece ventriloquo alle sue estreme parole: “siamo debitori di un gallo ad Asclepio” (Fedone, 118a)? Nonostante l’elogio del silenzio di Socrate, Nietzsche diventa in merito spietato: Socrate tradirebbe qui il suo pessimismo di fondo che si traduce nella visione per cui la vita stessa è la malattia (das Leben ist eine Krankheit), che solo la morte toglie in profundum (Nietzsche, op. cit., vol. III, pp. 569-570). E se tale visione fosse inscindibile dalla sufficienza dell’interpretazione socratica del suo ricorrente sogno secondo il quale egli avrebbe dovuto “produrre e fare mousikè” (mousikèn poíei kaì ergazou)? (Fedone, 60d-61b).
Si vuole qui suggerire che l’atteggiamento socratico – se poi questo sia anche la posizione platonica si discuterà in altra sede – frammenta radicalmente mousikè in ambiti disciplinari: per Socrate essa coincide con la filosofia e soltanto accidentalmente con la poesia o la musica. Socrate pensa che per corrispondere all’oracolo del sogno sia necessario sciogliere una disgiunzione esclusiva (o la filosofia o la poesia è l’espressione più elevata di mousikè) e soltanto per scrupolo Socrate – nel dubbio – avrebbe composto opere poetiche.
Ed è per tale ragione che le vite votate alla musica come cultura e alla cultura come musica, che si racconteranno in questa rubrica non possono essere vite socratiche. Bios mousikos è così quella parabola esistenziale che è stata o è testimonianza della possibilità reale dell’idea regolativa per la pratica intellettuale stilata a Tubinga nel 1796 dai giovanissimi Hegel, Hölderlin e Schelling, secondo cui (Ill. V)
Der Philosoph muß ebensoviel ästhetische Kraft besitzen als der Dichter. Die Menschen ohne ästhetischen Sinn sind unsere Buchstabenphilosophen. Die Philosophie des Geistes ist eine ästhetische Philosophie. Man kann in nichts geistreich sein, selbst über Geschichte kann man nicht geistreich raisonieren – ohne ästhetische Sinn. Hier soll offenbar werden, woran es eigentlich den Menschen fehlt, die keine Ideen verstehen – und treuherzig genug gestehen, daß ihnen alles dunkel ist, sobald es über Tabellen und Register hinausgeht.
Il filosofo deve dunque possedere una forza estetica pari a quella del poeta. Ma i nostri filosofi sono, letteralmente, uomini privi di ogni senso estetico. La filosofia dello spirito è una filosofia estetica. Non si può assolutamente essere ricchi di spirito, non si può meditare con pienezza di spirito sulla storia – se non si è dotati di senso estetico. Deve finalmente risultare chiaro quello che manca agli uomini incapaci di comprendere qualsiasi idea – e abbastanza ingenui da confessare che per essi tutto è oscuro non appena si esce da tabelle e registri.
In definitiva, vite che hanno aspirato nel loro lavoro dello spirito a costituire una vera e propria mitologia della ragione (Mythologie der Vernunft) senza la quale il pensiero stesso non potrà mai ambire a svolgere la sua funzione socio-politica: la stimolazione e espressione di tutte le forze psichiche e collettive (Ausbildung aller Kräfte, des Einzelnen sowohl als aller Individuen) (Hegel, 1971, vol. I, pp. 234-236).
A definire il bios mousikos non sarà quindi l’impiego o la fama, bensì l’incarnazione di una ragione sana, cioè quando, chiarisce Giorgio Colli, “l’uomo è in grado di sviluppare la propria razionalità come espressione, ultima manifestazione dell’istinto“. “Se invece un uomo“, continua Colli, “o un gruppo umano, confonde e mescola inestricabilmente istinto e ragione, nel senso che la seconda assorbe il primo, cioè lo subordina a sé, anziché esprimerlo, allora essi sono destinati a una degenerazione senza salvezza“. Tale ragione è la pre-condizione per la testimonianza di una “vita integra” del bios mousikos in quanto individualità non piegate dal mondo (Colli, 1974, pp. 52, 199-201).
Senza tali vite ad ergersi quali fiaccole ad indicare la via per l’individuazione psichica e collettiva espressa dal senso profondo di mousikè, fuori dalle “tabelle e registri” la vita verrebbe esclusivamente censita quale follia e assieme tramonta l’idea stessa di civilizzazione.
BIBLIOGRAFIA
Bassiri Tabrizi, Artin. « Alla ricerca di un corpo: le Sirene ». Philosophy Kitchen. Orecchiare (2020): https://philosophykitchen.com/2020/04/alla-ricerca-di-un-corpo-le-sirene/.
Boezio, Severino. La consolazione della filosofia. Traduzione di Ovidio Dallera. Milano: BUR, 2005 (1977)1.
Colli, Giorgio. Dopo Nietzsche. Milano: Adelphi, 1974.
Nietzsche, Friedrich. Sämtliche Werke. Studienausgabe in 15 Bänden. Édité par Giorgio Colli et Mazzino Montinari. Berlin/New York: Verlag de Gruyter, (1967-)1.
Lyard, Denyse. « Les chemins de la femme ». Cahiers jungiens de psychanalyse. La femme et son autre, n°75 (1992): pp. 23-31.
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich. Werke in zwanzig Bänden. Frankfurt a.M.: Suhrkamp, 1971.
Platone. Fedone. Traduzione di Manara Valgimigli. Bari: Laterza, 2000.
Platone. Simposio. Traduzione di Giorgio Colli. Milano: Adelphi, 2011 (1979)1.
Quignard, Pascal. La haine de la musique. Paris: Calmann-Lévy, 1996.